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Una trincea per Obama

(Bernardo Valli su Repubblica)


Spetta al nuovo presidente imporre un vero dialogo tra palestinesi e israeliani

BERNARDO VALLI

È proprio in questi giorni, anzi in queste ore, che i negoziati israelo-palestinesi più auspicati che annunciati dalla conferenza di Annapolis, organizzata da George W. Bush nel novembre 2007, avrebbero dovuto dare i primi frutti. È con un misto di sarcasmo e di collera che uno ricorda l'ultimo degli innumerevoli tentativi falliti di gettare le basi per una pace in Medio Oriente. Il fallimento di quei negoziati (in realtà mai cominciati) è adesso celebrato nel sangue. L'iniziativa lanciata con solennità dal presidente degli Stati Uniti nascondeva un bluff di cui tutti erano consapevoli, ben sapendo in cuor loro i presenti alla cerimonia di Annapolis (americani, arabi, palestinesi compresi, e israeliani) che non era consentita alcuna speranza. I due campi a confronto erano, e sono, frantumati al loro interno: vale a dire divisi in fazioni o partiti in aperta concorrenza e quindi incapaci di affrontare compatti un negoziato. È da questo dato che bisogna partire per capire come si è giunti al massacro cominciato sabato e ancora in corso. Il conflitto israelo-palestinese, uno dei più dolorosi della nostra epoca, è anche il più complesso. Va ben oltre il braccio di ferro tra due popoli che si contendono la stessa terra. Lo complicano le religioni, le culture, le opposte interpretazioni di fatti storici. "Due versioni divergenti della stessa storia" dice Elie Bernavi. Per tutto questo la terra tre volte santa suscita passioni roventi nei più remoti angoli del Pianeta. Ma adesso, dopo decenni di estenuanti tentativi, e di finte illusioni, è morta l'idea secondo la quale negoziati bilaterali tra israeliani e palestinesi potrebbero sfociare da soli in un accordo finale. È morta, o ibernata, perché le situazioni politiche in Israele e in Palestina non conoscono né l'una né l'altra la coerenza e la coesione indispensabili. L'obiettivo ideale di due Stati sopravvive, non può sparire, ma la sua realizzazione è affidata a eventi che è impossibile immaginare. O a forze depositarie di saggezza e di mezzi che non si sono ancora manifestate. Gli Stati Uniti hanno finora deluso. George W. Bush non è stato il solo a sottrarsi al compito. La soluzione dei due Stati resta, come un miraggio.
In campo palestinese il movimento nazionale vive le lacerazioni interne più profonde da quando Yasser Arafat ne prese le redini più di quarant'anni fa. L'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), una volta rappresentante unico e legittimo del suo popolo, dispone di scarso prestigio. Con la nascita e l'affermazione della corrente islamica incarnata da Hamas (vincitrice delle ultime elezioni) l'autorità dell'Olp è largamente contestata. Il suo principale movimento, il laico Al Fatah, un tempo ritenuto la principale forza riformatrice (ma anche la più corrotta e per questo sconfitta alle ultime elezioni), è in preda a lotte intestine, inasprite dalla secessione di Gaza, sotto il controllo di Hamas dal giugno 2007. La tenzone tra Hamas e Al Fatah è aperta e spietata, nonostante i tentativi di mediazione, in particolare attraverso personaggi egiziani. La decisione di Hamas di rompere la tregua e di intensificare i tiri di missili artigianali sui vicini territori israeliani tendeva con tutta probabilità a convincere il governo di Gerusalemme ad attenuare il rigore del blocco decretato nel gennaio scorso. Comunque a smuovere una situazione divenuta insostenibile per il milione e mezzo di uomini e donne ingabbiati a Gaza. Se questo era il calcolo si è rivelato sbagliato. Un altro obiettivo ben visibile era ed è di creare all'interno del campo palestinese una forte opposizione ad Abu Mazen, leader di Al Fatah e presidente dell'Autorità Palestinese installata a Ramallah, in Cisgiordania, il cui mandato scade nei prossimi giorni di gennaio. La repressione su Gaza accende gli animi della popolazione di Cisgiordania, occupata dall'esercito israeliano e amministrata dall'Autorità palestinese. E fa apparire Abu Mazen, in buoni rapporti col governo di Gerusalemme, un collaborazionista. Giusta o ingiusta, l'accusa rischia di funzionare. Ecco la prova, dicono i suoi avversari: se l'esercito israeliano dovesse nelle prossime ore o giorni mettere fine con la forza alla secessione di Gaza, l'Autorità Palestinese di Abu Mazen si accoderebbe e ritornerebbe al seguito degli occupanti. L'instabilità cronica del sistema politico israeliano costituisce l'altro versante della paralisi quasi strutturale. I governi di Gerusalemme arrivano di rado alla fine dei loro mandati e quindi dei loro progetti riguardanti i rapporti con i palestinesi. Il caso estremo è l'assassinio nel novembre 1995 del primo ministro Yitzhak Rabin, promotore degli accordi di Oslo, che riconobbero per la prima volta un'autonomia palestinese. Il caso più recente sono le dimissioni di Ehud Olmert, in seguito ad accuse di corruzione, il quale resta primo ministro in esercizio fino alle elezioni anticipate del 10 febbraio. La nascita di coalizioni in cui i piccoli partiti possono dettar legge, rende i governi terribilmente fragili. Inoltre l'enorme squilibrio militare, che separa Israele dai suoi avversari, è un'arma a doppio taglio. Dà fiducia ma non spinge al compromesso, che, come dice Amos Oz, è un elemento essenziale dell'esistenza umana. I militari sono i garanti della sicurezza e la sicurezza chiede il rispetto del vecchio principio del "muro di ferro", da opporre ai nemici per disilluderli dall'idea di poter piegare Israele. L'influenza dei coloni installati nei territori occupati costituisce un ulteriore ostacolo. Donna stimata ed equilibrata, Tzipi Livni, attuale ministro degli Esteri, è candidata primo ministro del suo partito (Kadima) alle elezioni di febbraio. Se lei e il ministro della difesa Ehud Barak avessero dato, o dessero, prova di debolezza rischierebbero di perdere la gara con Benjamin Netanyahu, che corre per il Likud, il partito dei falchi. Ma il calendario ricorda un altro appuntamento di grande importanza: l'ingresso alla Casa Bianca, il 20 gennaio, del nuovo presidente. Non si poteva riservare a Barack Obama, come cerimonia inaugurale del suo mandato, il bagno di sangue di Gaza. La repressione israeliana è stata comunque approvata in anticipo dallo stesso Obama. Durante la visita in Israele, nel luglio scorso, egli disse infatti: "Se qualcuno lancia dei missili sulla mia casa dove la notte dormono le mie due figlie, io faccio qualsiasi cosa per fermarlo". Tra le priorità di Obama (oltre la crisi economica, l'Iraq e l'Afghanistan) c'è adesso anche il conflitto israelo-palestinese, che sembrava relegato nell'ombra. E spetta proprio al presidente degli Stati Uniti, di cui Israele è il principale alleato in Medio Oriente, ed anche qualcosa di più, riproporre, anzi imporre, l'idea di un vero dialogo tra palestinesi e israeliani. Idea per ora morta o ibernata. La difficoltà per Obama, come per i suoi predecessori, anche democratici, consisterà nel sapere e potere essere un arbitro deciso e imparziale.

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