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Blair e il caso italiano


                                     
                                                            di Guido Colomba



(The Financial Review n. 778) Tony Blair, primo ministro per tre mandati consecutivi, ha due grandi meriti. Il primo di aver combattuto una durissima battaglia interna per liberare il Labour Party dagli ideologismi del passato. Il secondo di aver mantenuto l'eredità della Thatcher riformando però il welfare state (il New Labour) per adeguarlo ai tempi. Quale correlazione ha tutto ciò con il "caso Italia" all'indomani della implosione del governo Letta per le insane dimissioni dei ministri Pdl? Riguarda il capitolo delle "riforme interne"("Un viaggio", Rizzoli, 2010 pag. 566). "All'inizio - ricorda Blair - pensavamo di mantenere i parametri del servizio pubblico e al contempo di poter trasformare profondamente quel sistema. Col tempo ci siamo resi conto di esserci sbagliati: senza cambiare le strutture, non si possono elevare gli standard, se non di pochissimo". L'obiettivo diventò allora: a) cambiare la natura monolitica del servizio pubblico, b) introdurre la competizione, c) sfumare le distinzioni tra il settore pubblico e quello privato, d) contrastare le tradizionali demarcazioni professionali e sindacali riguardo al lavoro e agli interessi acquisiti. In generale, cercare di liberare il sistema, lasciare che si rinnovasse, si differenziasse al suo interno, respirasse, divenisse più elastico". Ecco, questo potrebbe benissimo essere il preambolo per il programma governativo in Italia. Ma nulla del genere è stato fatto anche nel corso degli ultimi due anni (Governi Monti e Letta) nonostante le sollecitazioni europee e della Bce. Come mai? Che cosa lo ha impedito? Da qui bisogna partire per pensare al futuro senza essere inchiodati alla inutile cronaca quotidiana dei talk show. Ed è paradossale che "Il Fatto quotidiano", piuttosto che "Corriere della Sera" o "Repubblica", spieghi con assoluta chiarezza che cosa ci aspetta in tema di Imu, Iva e politica fiscale sul costo del lavoro. Praticamente si intende “finanziare meno tasse” con nuova tassazione. Della spending review non vi è più traccia (la Francia su una manovra di 18 miliardi ha deciso riduzioni di spesa per 15 miliardi) mentre si acuisce il “disagio” delle banche i cui incagli superano oramai i 150 miliardi. Sul fronte esterno, il timore di una totale "germanizzazione" europea dopo la riconferma della Merkel, si riassume in tre cifre. Con il 7% della popolazione mondiale, l'Europa vanta il 25% del PIL e spende il 50% mondiale per il welfare state. Dunque, è proprio sui costi (in termini di sprechi) e sulla sostenibilità del welfare state (le regioni costano troppo) che si gioca la partita del futuro dell'Italia. Nel rievocare a Milano l'economista Luigi Spaventa, Mario Draghi ha ricordato che è stata proprio l'Italia ad avere i maggiori vantaggi dall'euro. L'Italia pagava sul debito dei titoli di stato quasi il 12% di interessi con una differenza del 3% sulla Germania. Con l'euro, l'Italia paga molto di meno ma non ha utilizzato questo enorme vantaggio per migliorare la competitività e per riformare il perimetro dello Stato a vantaggio di una minore tassazione sul lavoro e sulle famiglie. Quanti continuano a negare questa verità storica fanno soltanto male a se stessi. (Guido Colomba) Copyright 2013 – Edizione italiana -



 Fonte: (R.F. Anno 51 N° 778 , 29/9/2013 ore 19:59) La Rassegna Finanziaria -