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Un sindaco “italiano” a New York



di Alberto Pasolini Zanelli
Un sindaco “italiano” a New York è tutto fuori che una novità. È, anzi, nella tradizione politica di quella che non si cessa di chiamare con il nome bruttino di Grande Mela. Ma Bill de Blasio non fa parte di alcuna tradizione: rappresenta, anzi, un brusco rovesciamento di tendenza delle dimensioni di un plebiscito. È stato eletto con i tre quarti dei voti dei neyorkesi, un record, su una piattaforma politica e su delle promesse di segno opposto a quelle dei suoi due più famosi predecessori di origine italica, Fiorello La Guardia e Rudy Giuliani. Che intanto erano repubblicani, mentre de Blasio è democratico. Poi perché, soprattutto Giuliani, erano fervidi conservatori in quasi tutti i pilastri della loro ideologia e pratica. de Blasio si presenta invece come il sindaco più di sinistra nella storia di New York e, probabilmente, di ogni metropoli degli Stati Uniti. Lo indicano sia il suo programma sia, in modo ancora più “colorito”, il suo passato. Il suo viaggio di nozze, per cominciare, è andato a farlo all’Avana, a “casa” di Fidel Castro, meta tutt’ora oggi proibita ai cittadini Usa dalle leggi di Washington e non da Fidel. In gioventù ha frequentato assiduamente i sandinisti in Nicaragua e negli anni Ottanta si è recato più volte a Mosca, quando era la capitale dell’Unione Sovietica. C’è anche un po’ di leggenda in una lettura affrettata di queste curiosità e molta esagerazione.
Tuttavia non c’è un contrasto totale con le sue priorità programmatiche, con lo stile della sua campagna elettorale e con la composizione etnica e sociale del suo seguito. La sua vittoria è stata un plebiscito, nel senso che lo ha votato la maggioranza di tutti i gruppi in cui si usa “sezionare” la società newyorkese. Gli italoamericani, anzi, sono stati fra i più avari mentre maggioranze schiaccianti gli sono venute dai neri, che lo hanno preferito nelle primarie al candidato del loro “colore”, convinti dal suo matrimonio con una donna nera ma soprattutto dalle sue argomentazioni e dal suo linguaggio. Lo hanno plebiscitato gli ebrei e i “latinos”, lo ha votato il ceto medio “anglosassone”. Unici in controtendenza, i redditi più elevati in un contesto sociale dalle forti e crescenti contrapposizioni di reddito. Su questo si era centrata tutta la campagna di de Blasio: una polemica contro i “plutocrati” e dalla parte dei poveri e soprattutto di un ceto medio che si sta impoverendo. Non solo a New York, non solo in America, non per colpa dei governi ma per le conseguenze in gran parte “cieche” di una serie di sviluppi tecnologici, ingigantiti forse da una gestione un po’ troppo affrettata della neoliberalizzazione, che genera per reazione una forte spinta “populista”. de Blasio ha martellato nei suoi comizi il fatto che il 46 per cento dei cittadini vive al di sotto della soglia della povertà, che salari e stipendi del 70 per cento degli occupati stagnano da anni mentre molti fra i redditi da capitale crescono vertiginosamente. Il fenomeno non è nuovissimo, risale ai primi giorni della crisi finanziaria diventata evidente durante la campagna elettorale presidenziale del 2008 che portò Barack Obama alla Casa Bianca, senza però che quest’ultimo insistesse su tali temi preferendo egli adottare, come del resto fa ora, una cauta politica “centrista”. È la situazione, non la Casa Bianca, a radicalizzare il contrasto. Fino a poco tempo fa soprattutto ad opera della destra repubblicana ma oggi, evidentemente, anche per una “estremizzazione” della sinistra democratica. Non si tratta solo di de Blasio (dei democratici “liberal” hanno prevalso in tutte le altre contemporanee votazioni nella metropoli) né solamente di New York. Anche in uno Stato più conservatore come la Virginia, per esempio, il candidato democratico Terry McAuliffi, uno stretto collaboratore di Hillary Clinton, ha vinto sul repubblicano Ken Cuccinelli, sponsorizzato dal Tea Party.
Ma se c’è un rovesciamento di tendenza esso è distinguibile per ora dal nome di de Blasio. Che cosa propone e che cosa si propone? Egli promette e intende usare al massimo i poteri, importanti ma non illimitati, di un sindaco di New York per spostare in senso “populista” certi equilibri, prevalentemente ma non soltanto economici. Il suo “comandamento” numero uno è molto semplice: “Aumentare le tasse ai ricchi”. Per la precisione, a quell’1 per cento che più ha guadagnato dall’evoluzione degli ultimi anni. La specificazione lo ha aiutato a raccogliere, assieme ai voti dei ceti più disagiati, anche quelli, altrettanto numerosi, della classe media che anche New York, come nel resto dell’America e un po’ di tutto il mondo (o almeno dell’area euro-atlantica) soffre, sia materialmente di una stagnazione dei redditi, anche psicologicamente per la cessazione del loro incremento negli ultimi decenni, di una paralisi delle aspettative e dunque della deprimente sensazione di stare scendendo nella scala sociale.
Questa la gente che ha votato per de Blasio. La maggior parte, va ricordato, aveva eletto e rieletto il repubblicano Michael Bloomberg concedendogli dodici anni di potere coronato in gran parte da successo e dunque anche di approvazione. Bloomberg non era questa volta candidato. Forse aveva annusato il cambiamento di atmosfera. Se si fosse ripresentato avrebbe fatto certamente assai meglio del suo successore designato Joe Lotha. A danneggiare le sue prospettive non sarebbe stato il bilancio di quello che ha fatto, bensì le cose che ha detto recentemente, le iniziative che ha preso che lo hanno ravvicinato, almeno nella sensibilità dei suoi cittadini, alle tesi del Tea Party e della destra repubblicana in altre parti del Paese, più rurali e tradizionaliste ma soprattutto meno colpite dagli aspetti negativi della trasformazione in corso. È contro questo che i newyorkesi hanno inteso votare concedendo una così massiccia vittoria all’“oriundo” di Sant’Agata dei Goti. Non per Castro, per i sandinisti o per i ricordi dell’Unione Sovietica.
pasolini.zanelli@gmail.com