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Elezioni europee viste da Vienna



Alberto Pasolini Zanelli
da Vienna
L’uomo che potrebbe “rottamare” Renzi abita a Vienna, seduto sul “trono” che fu di Metternich. Si chiama Sebastian Kurz, è da poco ministro degli Esteri e ha appena compiuto 27 anni. Dieci di meno del “fanciullo prodigio” che da poco anch’egli si è trasferito da Firenze a Roma. Non appartengono alla stessa parte politica ma operano entrambi all’interno di coalizioni molto simili. Kurz è formalmente più conservatore, membro di quel Partito popolare austriaco che ha tutti i quarti di nobiltà del Partito popolare europeo guidato non ufficialmente ma con redini di ferro da Angela Merkel. Kurz ha, soprattutto, altri problemi. Diciamola più in chiaro: ha meno fretta, meno emergenza, più tempo per crescere di età, oltre che di grado. Questo perché l’Austria può aspirare in questo momento, un secolo esatto dopo lo scoppio della guerra che doveva cancellarla dal rango delle grandi potenze, a un ruolo centrale di tutt’altro genere ma pur sempre da Vienna. Può passare per il baricentro dell’Europa, naturalmente in tutt’altro senso. Baricentro perché “centro”: non appartiene al club selezionato degli europei scampati alla crisi ma neppure alla facinorosa assemblea dei tanti che nella crisi ci sono affondati. Se l’Europa di oggi è giustamente definita “a due velocità”, Vienna dimostra che ce ne può essere una terza, di compromesso. L’Austria è un caso a parte, sospesa. Non si è arrampicata e non è affondata. Non è tranquilla ma neppure è angosciata. Deve, semplicemente, risolvere certi suoi problemi strutturali ma è psicologicamente preparata. Non plaude alla Cancelliera di Ferro di Berlino ma neppure la contesta.
Il quadro politico fra le due entità germaniche è solo apparentemente simile. Entrambi i Paesi hanno rinnovato di recente il Parlamento nazionale. In Germania vi si erano affrontati otto partiti su scala nazionale e gli stessi concorrono ai seggi di Strasburgo. In Austria i concorrenti sono nove. L’“ordine di arrivo” è simile ma con una differenza importante: i tedeschi hanno collocato al primo posto i democristiani e al secondo i socialdemocratici, gli austriaci hanno fatto il contrario. Quindi anche due Grandi Coalizioni possono essere diverse, dettate da differenti realtà. Lo dimostra anche la storia: le alleanze fra democristiani e socialisti in Germania sono nate ogni volta da situazioni di emergenza, almeno parlamentare e costituiscono l’eccezione. In Austria sono dal secondo dopoguerra la regola, dettata dalle tragiche esperienze successive al primo fra la caduta dell’Impero Asburgico e l’Anschluss hitleriano, un’epoca di tensioni così estreme che un partito democristiano dovette ricorrere alla dittatura e i dibattiti con i socialisti talvolta si svolsero a fucilate.
Adesso la Felix Austria può concedersi una concordia nazionale, turbata solo dalle contestazioni antieuropee di un partito di estrema destra ma di solido appoggio popolare, quello nazional-liberale sopravvissuto alla morte del suo leader Haider. Sebastian Kurz ha dunque tempo per crescere e parlare pacatamente di argomenti non di bruciante attualità come la riaffermazione della neutralità austriaca. In Europa sì, nella Nato no. Scelte più ardue toccano semmai ai colleghi che guidano i dicasteri economici, ma anche in quel campo c’è disponibilità al compromesso, pure quando questo obblighi a smussare le illuminate asprezze della Scuola Viennese. L’Austria non è chiamata a guidare l’Europa. È tenuta però a non dimenticare certe tragiche esperienze la cui memoria par presa sotto gamba a Berlino. La Merkel governa e parla agitando sempre, con piena ragione, lo spettro delle esperienze degli anni Venti, quelli della “superinflazione”. Gli austriaci si ricordano anche della Grande Depressione degli anni Trenta, quella causata dalla deflazione e dall’Austerity. Il malanno era scoppiato ancora una volta a Wall Street, ma l’occasione per la catastrofe mondiale venne dal fallimento di una piccola banca austriaca. La fame era alle porte, Hitler, un’altra guerra mondiale.