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Accordo Fed-Bce per salvare l'Europa


Guido Colomba

Sarà la Fed a salvare l'Europa facendo salire il valore del dollaro rispetto all'euro, agevolando così una ripresa delle esportazioni, specie per i paesi più deboli dell'eurozona. E' questo il significato dell'accordo raggiunto a Jackson Hole il 22 agosto scorso tra il presidente della Fed, Janet Yellen e il presidente della Bce Mario Draghi. E' significativo che, in quella occasione, gli economisti di Wall Street non siano stati invitati proprio perchè si trattava di riempire il vuoto politico dei governi di Eurolandia. L'altro sostegno della Fed è costituito dal rinvio ad aumenti nel costo del denaro mantenendo "a lungo" tassi molto bassi, vicini allo zero, tali da far risparmiare cifre consistenti ai paesi con forte debito (per l'Italia il fabbisogno è già diminuito di dieci miliardi di euro in dieci mesi con lo spread sotto quota 150). Dando così il benservito al gruppone degli economisti "politico-istituzionali" che continuano a condannare l'eccesso di liquidità fornito dalla Fed (seguita dalle banche centrali di Giappone e Regno Unito) ed esaltano il "modello tedesco". I risultati già si vedono. L'euro, che nel corso dell'anno ha superato quota 1,40 sul dollaro, è ora sceso a 1,31. L'obiettivo è recuperare quota 1,20 offrendo un vantaggio competitivo all'export di quasi il 15% così da rendere meno dolorose le misure di "spending review". Non a caso Draghi ha scelto il suolo americano per sottrarsi al "controllo" di Angela Merkel e della Bundesbank e per invitare i governi dell'eurozona ad utilizzare l'elasticità operativa all'interno del fiscal compact. Anche nel 2012 Draghi scelse la City per annunciare con successo che avrebbe fatto "tutto il necessario" per difendere l'euro dagli attacchi speculativi. Del resto sono ben note le frizioni e le critiche che Fed e Casa Bianca da anni rivolgono all'austerity della Merkel, fonte di errori gravissimi a danno dei paesi più deboli. Anche il Fmi si è unito a queste critiche. Il significato politico dell'accordo di Jackson Hole si trova nel comunicato del Quirinale, al termine del colloquio tra Renzi e il Capo dello Stato, che fa esplicito riferimento alla "linea Draghi" in realtà basata sulla intesa speciale con a Fed. Se poi si inquadrano questi fatti con la grave crisi tra Russia ed Ucraina, diventa chiaro quali siano stati i prezzi che Berlino ha pagato sull'altare di questo aiuto statunitense fornito nel momento più delicato per l'eurozona afflitta dalla deflazione. Merkel ha dovuto ammettere che il partenariato con la Russia non esiste più e che è in atto un conflitto tra Mosca e Kiev. Per Matteo Renzi, la vittoria ottenuta con la nomina della Mogherini al vertice della politica estera europea (nonchè vicepresidente di Junker) è risultata lungimirante. L'altro ridimensionamento della Merkiel trova riscontro nella nomina alla presidenza del Consiglio europeo del primo ministro polacco Donald Tusk, grande alleato di Londra. Di certo, il patto Ue-Ucraina costa caro a Mosca. E' un segnale sul cambiamento geopolitico che l'Europa sta affrontando. Draghi, nonostante le critiche anglo-americane per non aver saputo anticipare per tempo i pericoli della deflazione (anzichè tenere l'inflazione "sotto ma vicina al 2%"), è forse riuscito a recuperare una nuova indipendenza dalla Merkel e dai falchi del Nord Europa troppo interessati a difendere i loro interessi nazionali.