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Cia: esame di coscienza con rabbia



Alberto Pasolini Zanelli
È tempo di polemiche in America. Di rabbia e di pentimenti, di rancore e di dolore. In poche ore si è passati dallo scambio di morsi per lo stillicidio di violenze poliziesche di reazioni tumultuose nelle strade, a un dibattito serrato attorno a un argomento non del tutto estraneo ma investito di una profonda dimensione storica. L’America ha processato le sue spie. Non quelle del nemico, che è normale e sempre attuale, ma le proprie, quelle ufficiali, consacrate. Insomma, la Cia, sotto accusa nella più sacra delle aule, il Senato, da parte di una commissione di inchiesta parlamentare e con imputati non solo i suoi dirigenti ma anche, indirettamente ma inevitabilmente, un presidente degli Stati Uniti e i suoi più diretti collaboratori per la parte avuta, le decisioni prese in uno dei momenti più drammatici della storia americana. Processo alla Cia per le scelte per combattere il terrorismo immediatamente dopo la strage di tredici anni fa a Manhattan per opera dei jihadisti islamici. Una grande platea, un argomento di rilevanza storica, un paradossale rovesciamento dei ruoli. Doveva esserci Bin Laden al centro degli imputati, responsabile indiscusso di tremila morti. È morto anche lui, troppi anni dopo il suo delitto e da allora sono diventati imputati quelli che l’hanno ucciso. Non per questo, naturalmente, ché quel gesto viene tuttora onorato e festeggiato come un atto di giustizia e anche di rivalsa nazionale, bensì è rimasto sulla strada tortuosa e oscura delle rappresaglie.
Processo alla Cia per l’arma medioevale e ripugnante che è riemersa da una latitanza di secoli: la tortura. Quella riassunta fin dai primi giorni dopo quell’11 settembre 2001 quasi come strumento indispensabile per identificare e punire gli autori della strage. Quelli indiretti, naturalmente, i mandanti: perché gli autori materiali erano tutti morti assieme alle loro vittime. Il pubblico americano cercava due cose: sicurezza e vendetta. Nell’ansia, nella fretta, nell’indignazione il Potere le ha ritenute entrambe indispensabili, senza provare un vuoto di coscienza. Sbocciarono così la caccia all’uomo, gli arresti illegali in ogni parte del mondo, le deportazioni e le incarcerazioni senza processo, le garanzie legali, le prigioni segrete in diversi Paesi in cui nascondere i sospetti e i loro trattamenti illegali. Ce n’erano undici, contrassegnate ciascuna da un colore: blu in Polonia, viola in Lituania, nero in Romania, verde in Thailandia, quattro in Afghanistan (grigio, cobalto, arancio e marrone). E tutte confluivano a Cuba, in quella base di Guantanamo sotto occupazione e controllo militare Usa.
Le aprirono quasi subito e devono ancora chiuderle tredici anni dopo. Centri segreti in cui le leggi americane erano sospese e le proclamazioni dei Diritti dell’Uomo. Niente difensori, niente processi, nessuna comunicazione ai familiari e, soprattutto, “interrogazioni irrobustite”. Cioè torture. La prima di cui si ebbe notizia fu la tortura dei falsi annegamenti, il far provare al detenuto la sensazione di affogare, il tirarlo fuori vivo per ricominciare. Diventò, per molti, il simbolo dell’illegalità, ma per i più della risolutezza del punire i criminali che avevano ferito a sangue la Terra. Ma erano solo un episodio di una strategia scelta affrettatamente sotto l’impeto dello sgomento, dell’ira e, forse soprattutto, della paura. Paura della gente di altri attentati e stragi ma anche paura dei governanti di essere accusati di incapacità, indecisione, debolezza. Un incubo per un uomo come George W. Bush, che della risolutezza aveva fatto la sua divisa e non è cambiato. Per anni le cose andarono avanti così. I risultati non li conosciamo ancora, anche perché sono anch’essi coperti da segreto.
Poi a poco a poco affiorò la riflessione: l’America cominciò a vergognarsi anche di se stessa. Il nuovo presidente Barack Obama ordinò la chiusura delle carceri clandestine all’estero (che erano anche centri di tortura) e promise di fare lo stesso con Guantanamo, il simbolo. Finora non ci è riuscito, anche se ha alleggerito a poco a poco il peso numerico e quello sulla coscienza; ma intanto affioravano dettagli sulle illegalità e crudeltà, racconti e confessioni dei torturatori: certe pratiche sadico-erotiche in un carcere iracheno, la “idratazione rettale” con cui si doveva ottenere un “controllo totale sul detenuto”. Poi a Obama riuscì quel che era stato negato a Bush: l’uccisione di Bin Laden e le tensioni della vendetta popolare presero ad allentarsi. Sempre in meno sentivano il bisogno di capri espiatori. Il Congresso si mosse, raccolse dati e testimonianze per milioni di pagine, ne estrasse un résumé che è un atto d’accusa contro la Cia e che ora è stato pubblicato, con paternità bipartitica simboleggiata dalla presenza congiunta della senatrice democratica Dianne Feinstein e del “falco” repubblicano ed eroe di guerra John McCain. E immediatamente il fuoco delle polemiche si è riacceso ed è sceso in campo George W. Bush in persona. Gli accusati sono formalmente incolpati di averlo “ingannato”, ma lui è uscito dal silenzio e si è proclamato “complice” e anzi responsabile. Un gesto orgoglioso che però difficilmente sopirà le polemiche. Anche perché finora nessuno fra i leader ha trovato il coraggio di gettare sul tavolo la parola che potrebbe spiegare meglio di ogni discorso le origini delle violazioni legali e umane: la paura.