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Le parole di Minsk



Alberto Pasolini Zanelli
Le parole di Minsk non hanno acquietato, finora, gli spari di Donetsk. Era previsto. Si prevede ancora che un dialogo che è suonato finora fievole possa decidere le sorti di Kiev? È una speranza, non un pronostico, ma non ha alternative. I protagonisti sono in numero forse eccessivo e soprattutto insufficientemente omogenei; ma, di nuovo, le alternative sono peggiori. C’è una superpotenza in carica, gli Stati Uniti, una del passato ma tuttora orgogliosa, la Russia, due, Francia e Germania, che rappresentano la buona volontà e la memoria dolente della vecchia Europa. E ci sono i protagonisti dell’incubo, che a Kiev saranno ospiti più che padroni di casa e, infine, i secessionisti, i ribelli. Ciascuno parla la propria lingua, sovente tessuta di contraddizioni non tutte evitabili. Il linguaggio della ragione è parlato soprattutto dalle “potenze” che possiamo definire intermedie, quelle che, da Berlino e da Parigi, si sforzano di mediare, di resuscitare almeno il linguaggio della vecchia diplomazia. E che, va ricordato, non paiono dimenticare l’altra minaccia che incombe sul mondo, la maggiore, quella incarnata da un Califfato che pare risorto sugli incubi e non sui sogni. Due “guerre” o almeno due “fronti”. Uno orientale disegnato sulle carte ingiallite della Guerra Fredda, con i confini spostati verso Est, il che dovrebbe confermare e ricordare che a vincerla è stato l’Occidente, senza operazioni belliche, in una specie di miracolo sigillato da due statisti, Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan, che di colpo sembrano appartenere a evi remoti.
È passato un quarto di secolo e si torna a parlare di “diplomazia coercitiva”, che parte da sanzioni economiche e finanziarie ma che minaccia di richiedere a breve scadenza misure militari non più soltanto simboliche. Non si parla quasi più, per esclusione, di “armi non letali”, che del resto è una definizione nata dalla speranza più che dalla logica. Ci si chiede come convincere Putin ma anche come Putin reagirebbe a sanzioni militari diversamente da come ha fatto finora a quelle economico-finanziarie. Ciò anche perché la fase “postbellica” ha preso una piega diversa dal previsto (o dal sognato) di quell’8 dicembre 1991 che vide l’Urss cessare di esistere, già per motivi geografici. L’area Nato si è spostata a Oriente, il terreno controllato da Mosca si è ristretto, è venuta a mancare quella “zona grigia” o “terra di nessuno” che avrebbe dovuto fare da cuscinetto. Un disagio per ambo le parti: le idee sono confuse e i mezzi comunque limitati, a conferma di una massima venuta di moda proprio all’inizio del secolo: “Le guerre sono tutte inutili perché creano più problemi di quelli che sono chiamate a risolvere”. Ma le necessità e le ambizioni delle grandi potenze e dell’unica Superpotenza restano e gli interessi si divaricano. Rimane aperto l’interrogativo se al mondo bipolare possa, debba succederne uno monopolare oppure uno multipolare. L’America, per quanto non unanime (lo dimostrano le differenti proposte ma soprattutto i linguaggi di un Obama che appare incerto ma forte è soltanto pensoso e la spicciativa aggressività di molti esponenti repubblicani. Gli Stati Uniti non possono sottrarsi interamente alla tentazione monopolare, frutto supremo della grande vittoria. La Russia ovviamente preferirebbe la multipolarità, anche se accontentandosi di un secondo posto fisso.
La crisi ucraina è figlia, anche e soprattutto, di un reciproco processo alle intenzioni. Putin teme che le varie Ucraine che si sono create o sono sul punto di crearsi nell’Europa Orientale finiscano con il ritrovarsi incorporandosi nella Nato, spinti a questo anche proprio dalle iniziative, parole e dai gesti del Cremlino e accettino per questo, o addirittura reclamino, la necessità di coprirsi con un mantello americano. Obama vorrebbe un futuro di pace agevolato, se non garantito, da una distensione consolidata: obiettivo comprensibile, ma reso fragile dalle pressioni interne, rafforzate dalle sempre più frequenti prove della disponibilità della controparte a ricorrere alla forza, palese o mascherata che sia. L’Europa, almeno quella che conta, si è risvegliata, Francia e Germania paiono ritrovarsi su posizioni simili a quelle che assunsero nei giorni dell’intervento di George W. Bush in Irak, con la variante che la Merkel potrebbe ereditare il ruolo guida del tandem riservato allora a Chirac; ma già l’unanimità fra Berlino e Parigi è difficile da ritrovare, più ardua anche che le due capitali parlino per l’Europa intera.