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Si parla un po’ meno di Donald Trump



Alberto Pasolini Zanelli
Da un paio di giorni la maratona elettorale Usa ha cambiato protagonisti, argomenti, stile.  e della corsa a destra dei suoi rivali repubblicani e si riscopre che nella gara per la Casa Bianca ci sono anche i democratici, non solo perché uno di loro ne è tuttora l’inquilino. Barack Obama, per cominciare, ha ripreso in mano il microfono, parlando di politica estera e presentando come temi del dibattito fatti rilevanti come l’entrata in funzione del Trattato nucleare con l’Iran. Argomento importante e anche scottante, che ha incrinato il monopolio finora detenuto dalla contesa fra repubblicani, rimasta molto accesa ed estemporanea. Gli argomenti degli ultimi giorni sono singolari: da un lato il tentativo di Trump di disarcionare il suo rivale principale Ted Cruz, dichiarandolo ineleggibile e dunque incandidabile alla presidenza per motivi anagrafici e costituzionali, mettendo semplicemente in dubbio che egli sia un “vero americano”. E non per il motivo che suo padre è un immigrato da Cuba, bensì perché per sfuggire al regime di Castro si rifugiò non negli Stati Uniti ma in Canada ed assunse la cittadinanza canadese. Così suo figlio potrebbe ora vedersi sbarrare il passo dal paragrafo della Costituzione che stabilisce che non è nato americano non può concorrere alla presidenza.
Il suo compagno di partito Trump chiede in sostanza che Cruz sia squalificato. Difficilmente questa obiezione verrà accolta. È stata finora sollevata da altri aspiranti alla presidenza. Da Barry Goldwater, nato in Arizona, cioè in America, ma quando essa non era ancora uno Stato ma solo un “territorio”. Poi contro John McCain, figlio di un ammiraglio e dunque generato in una base navale a Panama, dunque all’estero. Ma anche lui “passò l’esame”. L’unico “bocciato” per questo motivo è stato Arnold Schwarzenegger, popolarissimo governatore della California ma impedito di salire l’ultimo scalino perché nato austriaco e come tale poteva essere eletto a Vienna ma non a Washington. Adesso tocca a Cruz, ma non ci si attende che la polemica si fermi molto su questo suo caso. Cruz ha comunque reagito rimproverando a Trump di essere newyorkese, cioè americanissimo ma portatore di “valori” più o meno “antiamericani”.
A questo punto la parola è passata ai democratici, che nelle prime lunghe settimane preelettorali erano stati quasi ignorati, anche perché il loro partito ha espresso finora due soli aspiranti alla Casa Bianca mentre i repubblicani erano tredici. Non solo, ma il vincitore pareva segnato: Hillary Clinton, moglie di presidente, ex Segretario di Stato, supposto idolo delle femministe, erede di Obama e dunque del voto di colore. Il suo sfidante è maschio, bianco, ultrasettantenne, espressione di uno Stato fra i meno popolosi d’America e soprattutto dichiarato socialista, termine che nel gergo politico americano si colloca fra la fantascienza e la bestemmia. Anche il suo nome, Bern Sanders, compariva quasi solo nelle note a margine del librone politico Usa. E invece Sanders saliva. Pochi si sono accorti che nelle settimane e mesi fra il via e oggi, Sanders è salito quasi senza sosta, trasformandosi da “comparsa” in protagonista. La sua ascesa è stata puntualmente registrata e segnalata dai sondaggi. Adesso Hillary è ancora in testa in campo democratico, ma la sua prevista “passeggiata” solitaria si è trasformata in un duello. Su scala nazionale, Clinton e Sanders sono diventati una coppia “nemica”. Il vantaggio di Hillary si è ridotto dal 30 per cento al 13 su scala nazionale, a meno del 10 per cento nei due Stati che per primi terranno ai primi di febbraio le “primarie” e infine, se il “socialista” strappasse la nomination e si trovasse a competere con Trump, partirebbe con ben 15 punti di vantaggio: 54 a 39.
Ma ad avere paura, per il momento, è la Clinton, precipitata dal comodo della sicurezza all’apice di un duello che potrebbe assomigliare troppo a quello del 2008, allorché da una semioscurità spuntò Barack Obama e portò via per poche migliaia di voti la nomination democratica e, dunque, la Casa Bianca. Questa volta Hillary si è presentata, invece che rivale, come erede di Obama. Ma finora non è bastato. Adesso la consorte di un presidente che spostò al centro il Partito democratico è costretta a buttarsi in una corsa a sinistra in cui non è per il momento il leader e che la vede sotto tiro per i suoi rapporti “troppo teneri” con Wall Street. Alla corsa dei repubblicani verso destra, o l’estrema destra, rischia ora di contrapporsi una corsa dei democratici verso sinistra. Vero è che manca ancora quasi un anno al giorno delle elezioni.