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USA IRAN: un trionfo diplomatico




Alberto Pasolini Zanelli
Una volta di più, John Kerry sapeva di che cosa parlava. Pochi giorni fa il Segretario di Stato aveva previsto, in termini insolitamente chiari per la cautela della sua carica, che la ratifica del trattato nucleare con l’Iran era imminente. È arrivata addirittura in anticipo, come previsto ma sconvolgendo in realtà tutte le previsioni, scavalcando tutti gli ostacoli, anche quelli potenzialmente più difficili. I nemici del Trattato (ce ne sono a Washington, a Teheran e in più di un Paese nel Medio Oriente) hanno creduto di avere trovato l’occasione buona per silurarlo: quando due navi militari Usa sono entrate nelle acque territoriali iraniane, sono state confiscate e i marinai fatti prigionieri dalle Guardie Rivoluzionarie. Una situazione “ideale” per far saltare tutto.
Invece tutto si è risolto addirittura in anticipo, la detenzione è durata un giorno. I “falchi” di Washington hanno dovuto chiudere la bocca e rinunciare a un discorso già pronto. Analogamente o quasi si sono comportati i falchi di Teheran. Così la Grande Giornata è arrivata. L’Iran ha ottemperato a tutte le condizioni stipulate a Vienna  luglio: ha “spento” le centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, rimosso il “cuore” del reattore ad acqua pesante, spedito in Russia o in Kazakistan gran parte delle sue riserve, con una rapidità che ha sorpreso i “controllori” del disarmo. È bastata, pare, una telefonata di Kerry al suo “collega” di Teheran Mohammad Zarif.
Allo scadere dei tempi è stato confermato il gol decisivo dello zoppo, l’accordo acciuffato da Kerry con le stampelle a causa delle fratture di una sua avventura da ciclista. Ma ad esultare è oggi soprattutto Obama su quello che è indiscutibilmente un trionfo diplomatico che potrà avere conseguenze molto importanti sullo scacchiere delle future relazioni diplomatiche ma per il momento è una buona carta da giocare sul tavolo verde della campagna elettorale Usa. Spunta le armi dei “falchi” repubblicani, pronti a denunciare l’“ennesima prova di debolezza” dell’inquilino della Casa Bianca, che non si potrà più accusare di essersi rimangiato parte delle condizioni per un accordo che aveva convinto mesi fa la controparte a sottoscrivere. Egli resta vulnerabile, naturalmente, al rimprovero opposto, cioè di avere fatto troppe concessioni pur di concludere il Trattato. È un argomento più debole, anche se la gara a chi è più intransigente potrà essere giocata dai due pretendenti più forti e più risoluti nel campo dell’opposizione, Donald Trump (falco su tutto) e Ted Cruz, il candidato che giorni fa auspicò, sia pure in un differente contesto, i “bombardamenti a tappeto”.
La Casa Bianca non giocava questa carta, ma ha fatto delle concessioni, soprattutto nella scelta delle parole e degli atteggiamenti in genere. Lo ha fatto anche perché i nemici di questo accordo non ci sono solamente a Washington ma anche a Teheran e anche a Teheran siamo in periodo elettorale, il più propizio agli estremismi. Si sa che l’ayatollah è da sempre contrario a trattative troppo approfondite con l’America, cui ha frapposto numerosi ostacoli. Adesso siamo alla vigilia delle elezioni del 26 febbraio. Sono in lizza 285 seggi del Majles, il Parlamento di Teheran e 85 dell’Assemblea degli Esperti, che saranno poi chiamati a scegliere il successore del Leader Supremo ayatollah Khamenei. “Una elezione così – dicono unanimi gli esperti – l’Iran non l’ha mai avuta dal giorno della Rivoluzione del 1979, con gli schieramenti tanto agguerriti e così apertamente contrapposti”. Le previsioni predicono un “discreto aumento” di voti per il fronte “moderato” guidato dal presidente della Repubblica Hassan Rouhani, favorevole a una prosecuzione della apertura verso l’Occidente, in linea con il Trattato che ora entra in vigore. Gli estremisti hanno condotto una campagna di dura opposizione e qualcuno teme che si spingano fino ad eliminare dalle liste alcuni fra i candidati moderati. Questi ultimi potrebbero però avere un asso nella manica: Hassan Khomeini, nipote dell’ayatollah Khomeini, che guidò dall’esilio prima in Irak e poi a Parigi la Rivoluzione integralista negli anni Settanta. Quella che abbatté lo Scià e spinse l’Iran nel campo radicalmente antioccidentale. Capovolgendone il ruolo storico del dopoguerra che lo vedeva come “controllore” filoccidentale del tumulto arabo nel Medio Oriente. Il “sogno” di Obama e di Kerry è forse quello di reinstaurare a poco a poco la geografia politica di quella parte del mondo.