Translate

Verso una composizione della “questione britannica”?



Gianfranco Verderame

Nei giorni scorsi il Presidente del Consiglio Europeo ha reso nota la lettera che ha inviato agli altri Capi di Stato o di Governo in preparazione del Consiglio Europeo del 17 e 18 febbraio che dovrà, dopo la prima discussione avuta in proposito nella riunione di dicembre, affrontare nel merito la questione inglese.
Il contesto è noto. Nel tentativo di porre un argine alla pressione euroscettica di una parte consistente dell’opinione pubblica e del mondo politico inglese, Cameron ha promesso la tenuta entro il 2017 (ma forse già nel 2016) di un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna nell’Unione Europea, chiedendo nel contempo l’apertura di un negoziato per la ridefinizione delle condizioni perché il suo paese possa restare nell’Unione.
Ma cosa ha chiesto il Primo Ministro britannico? In sostanza quattro cose: prendere atto del fatto che l’Unione ha ormai due categorie di membri (quelli dentro e quelli fuori dall’euro) e trarne le debite conseguenze; rafforzare la competitività di un’Europa che “rischia di rimanere indietro” nella battaglia della globalizzazione; riconoscere che la Gran Bretagna non è tenuta all’obiettivo del processo di integrazione di realizzare “un’unione sempre più stretta tra i popoli europei” e, di conseguenza, salvaguardare la sovranità nazionale nel rapporto con le Istituzioni europee; limitare “gli abusi del diritto della libertà di stabilimento in Europa, riducendo il flusso molto elevato di persone che giungono in Gran Bretagna da tutti i paesi europei”.
Pur se legate dal filo rosso della indisponibilità ad ulteriori avanzamenti nel processo di integrazione, le richieste britanniche sono molto eterogenee: accanto a quelle che riguardano problematiche, per così dire, “correnti” nella vita dell’Unione, come quella della crescita economica, della necessità di evitare l’eccesso di regolamentazione e di applicare pienamente il principio di sussidiarietà, ed in parte anche quella della regolamentazione di alcuni aspetti della libera circolazione che potrebbero prestarsi ad abusi, sulle quali un “onesto compromesso” non dovrebbe essere difficile, ve ne sono altre che pongono delicate questioni di principio.    
                         ******
Nelle sue controproposte il Presidente del Consiglio Europeo parte da un presupposto e da un interrogativo.
Il presupposto è che tutto il negoziato con la Gran Bretagna deve essere visto nella prospettiva di mantenere l’unità dell’Unione Europea.
Esaminare in questa sede, ed in tutti i suoi aspetti, i pro e i contro di una eventuale secessione di Londra ci porterebbe troppo lontano. Se da una parte è obiettivamente difficile pensare all’Europa senza l’apporto della civiltà, della solidità istituzionale, della proiezione politica e di sicurezza della Gran Bretagna, anche nella sua dimensione di membro permanente del Consiglio di Sicurezza, dall’altra non si può non rilevare che essa si è orgogliosamente tenuta fuori da molte delle politiche più qualificanti dell’Unione Europea, a marcare una differenza che Cameron esaspera ulteriormente. Né può dirsi che l’appartenenza all’Unione l’abbia indotta a limitare la sua tradizionale tendenza all’indipendenza in politica estera.
D’altra parte, nella attuale condizione di disorientamento delle opinioni pubbliche, l’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione diffonderebbe la percezione che l’integrazione europea è un processo reversibile: le spinte centrifughe che già oggi percorrono le opinioni pubbliche europee ne verrebbero pericolosamente rafforzate.
L’interrogativo, che consegue necessariamente dalla premessa, è come raggiungere il risultato di aiutare Cameron a trovare una via d’uscita dalla difficile situazione nella quale si trova, stretto fra una opinione pubblica che sembra sempre più orientarsi contro la permanenza della Gran Bretagna nell’Unione e la consapevolezza dei non trascurabili interessi economici e finanziari che spingono in senso contrario, senza mettere in discussione i principi su cui si fonda il progetto europeo.
Nel documento che ha appena inviato ai colleghi Capi di Stato o di Governo il Presidente del Consiglio Europeo sembra esservi riuscito solo in parte.
                          *****
Cominciamo dagli aspetti delle controproposte di Tusk meno controversi dal punto di vista della coerenza con i principî.
Un punto che merita di essere subito rilevato è che è stata esclusa ogni ipotesi di modifiche ai Trattati per accomodare le richieste britanniche. Lo strumento prescelto, una decisione del Consiglio Europeo, autorevole per quanto si voglia, ha un valore esclusivamente politico e di indirizzo, e l’attuazione delle misure in essa previsto – quando necessario - potrà avvenire solo nell’ambito del processo legislativo ordinario. Nel prosieguo sarà bene vegliare che non si fuoriesca da questo ambito.
Nel merito, corrispondere alle richieste britanniche in materia di impulso allo sviluppo economico attraverso il rafforzamento della competitività, la semplificazione legislativa e la riduzione degli adempimenti burocratici è stato – come prevedibile – molto agevole: la sezione relativa nel progetto di decisione del Consiglio Europeo si compone in tutto di tre paragrafi sostanzialmente declaratori, assortiti dal preannuncio da parte della Commissione della creazione di un meccanismo per la revisione del corpo legislativo comunitario e per la riduzione del peso degli adempimenti burocratici sulla vita delle imprese e da una Dichiarazione del Consiglio Europeo che ribadisce l’importanza di progressi significativi in questi settori.
Per quanto riguarda i rapporti fra gli Stati che partecipano e quelli che vogliono rimanere fuori dall’euro, si può preliminarmente notare che non tutte le richieste britanniche al riguardo apparivano irragionevoli.
Non era irragionevole, ad esempio, chiedere che i nuovi strumenti che dovessero essere creati all’interno dell’eurozona non si applichino automaticamente ai paesi che ne sono fuori, specie quando, come nel caso della Gran Bretagna, intendono restarvi e sono stati autorizzati in tal senso. Del resto, già oggi è così: l’Unione Bancaria si applica ai paesi dell’eurozona ed agli altri partner che abbiano accettato di parteciparvi, e diventerà obbligatoria per gli stati “con deroga” solo quando essi saranno in condizione di entrare nell’euro. Né era irragionevole chiedere che i costi di eventuali interventi a sostegno di paesi dell’eurozona non ricadano anche sugli altri. Aspetti questi regolati nel progetto di decisione che Tusk ha proposto ai suoi colleghi.
Ma tra le richieste di Cameron ve ne era una la cui accettazione avrebbe implicazioni molto serie, e non solo sul piano dei principî.
E’ opinione largamente condivisa che il tasso di disomogeneità nell’Unione ha ormai raggiunto il livello di guardia. Proprio gli sviluppi della vicenda inglese dei quali ci stiamo occupando dimostrano quanto profonde possano essere le divaricazioni delle visioni del futuro del processo di integrazione, e quanto la riflessione su un diverso assetto del vincolo europeo sia diventata ormai ineludibile.
Ed è proprio di fronte a questa prospettiva che nelle sue richieste il premier britannico aveva messo, per così dire, “le mani avanti”, ammonendo che “ogni questione che produca conseguenze sugli stati membri deve essere discussa e decisa da tutti gli stati membri”.  La richiesta non poteva che essere letta come la pretesa di incidere, con strumenti e procedure giuridicamente vincolanti sulle decisioni di coloro che si riconoscono in un percorso dal quale si vuole invece permanentemente restare fuori. Data la complessità ormai raggiunta dall’edificio comunitario, in cui ogni ambito di attività può avere ripercussioni più o meno dirette sull’insieme, questa impostazione avrebbe potuto condizionare pesantemente ogni ipotesi di integrazione differenziata.
La controproposta di Tusk su questo punto specifico consiste sostanzialmente in un meccanismo secondo il quale ogni Stato membro può chiedere che una questione relativa ai rapporti tra gli ins e gli outs venga discussa in seno al Consiglio Europeo per la ricerca di una soluzione soddisfacente, senza che ciò si traduca in un diritto di veto sul funzionamento dei meccanismi dell’Unione Monetaria, ed in particolare dell’Unione Bancaria, o sulla prospettiva di ulteriori integrazioni all’interno della zona euro.
Se si andrà avanti su questa strada – in larga misura obbligata se si vuole procedere verso integrazioni differenziate – il meccanismo dovrà essere valutato nel suo funzionamento concreto. Sarà bene però delimitarne chiaramente finora l’ambito di applicazione onde evitare che da esso risultino compromessa l’autonomia del processo decisionale e quella della BCE.  
                      ******
Le riserve cominciano quando Tusk affronta le richieste britanniche per salvaguardia della sovranità nazionale nei rapporti con le Istituzioni europee e in materia di trattamento dei lavoratori comunitari migranti.
Sul primo punto la critica è di fondo.
Ricordiamo innanzitutto che le richieste britanniche al riguardo partivano dal presupposto che Londra non è disposta ad accettare l’obiettivo di una integrazione sempre più stretta tra i popoli europei iscritto nel preambolo dei Trattati sin dall’inizio del processo di integrazione. E se è stato facile a Tusk ricordare che diversità di intensità e di ritmo nella partecipazione alle politiche comuni ce ne sono molte, a partire dalle cooperazioni rafforzate tra un numero limitato di stati membri, e che nella riunione del 26-27 giugno 2014 il Consiglio Europeo aveva già riconosciuto che il concetto di una unione sempre più stretta può essere declinato attraverso modalità differenti di integrazione, sì che coloro che vogliono approfondire l’integrazione devono rispettare la volontà di quelli che non intendono farlo (e, ovviamente, viceversa). E tuttavia, per molti versi il progetto di decisione che egli propone ai colleghi del Consiglio Europeo si spinge troppo avanti, e finanche “ultra petita”.
Lo fa quando sminuisce la portata dell’obiettivo, riducendolo alla “promozione della fiducia e della comprensione reciproca fra popoli che vivono in società aperte e democratiche e che condividono un comune patrimonio di valori universali”.
E lo fa quando non solo afferma che l’obiettivo di un’unione sempre più stretta “non impone che all’Unione vengano conferite competenze ulteriori” né comporta l’obbligo di realizzare l’unione politica, ma arriva fino a prefigurare che all’Unione possano essere sottratte finanche alcune delle competenze che già ha: nemmeno Cameron si era spinto fino a tanto nelle sue richieste.
Sulla richiesta britannica di un potere di veto dei Parlamenti nazionali sulla legislazione comunitaria asseritamente non conforme ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità, il documento di Tusk è per lo meno ambiguo. Se da una parte si basa sostanzialmente sulla procedura già instaurata con il Trattato di Lisbona secondo la quale ogni Parlamento nazionale può chiedere il riesame di un progetto legislativo qualora ritenga che esso non rispetta il principio di sussidiarietà, dall’altra, quando la richiesta sia avanzata da una consistente maggioranza di Parlamenti Nazionali, salta completamente la fase previa della decisione della Commissione se mantenere o modificare la proposta, ed attribuisce esclusivamente al Consiglio la decisione di non proseguirne l’esame. Né è chiaro, in questo ambito, il ruolo del Parlamento Europeo.
Su tutti questi aspetti i Paesi di più consolidata tradizione europeista, e certamente il nostro, faranno bene ad esercitare la massima vigilanza.
La stessa ambiguità sulla questione del trattamento dei lavoratori comunitari migranti ed in particolare sulla richiesta di poter riconoscere i benefici sociali ai lavoratori comunitari solo dopo quattro anni di contribuzione, allo scopo - si dice - di contrastare spostamenti eccessivi di lavoratori dai paesi membri per godere del sistema inglese di welfare. 
Il documento di Tusk correttamente ricorda che la regolamentazione della materia a livello comunitario è già notevolmente stringente, anche se su alcuni aspetti l’interpretazione delle norme appare in una certa misura forzata.  Ma preannuncia ulteriori proposte di atti legislativi da parte della Commissione, ed in particolare una modifica del Regolamento sulla libera circolazione dei lavoratori per dar vita ad una sorta di “freno di emergenza” in base al quale, in presenza di flussi eccezionali, i benefici sociali possono essere limitati per un periodo fino a quattro anni.
Ed anche se si tratterà ovviamente di atti legislativi da assumere attraverso le procedure ordinarie, con largo spazio quindi al negoziato e al giudizio di legittimità della Corte di Giustizia, resta il fatto che le modifiche proposte si tradurranno in ulteriori limitazioni dei diritti dei cittadini comunitari.      
Ma l’aspetto maggiormente opinabile in questo ambito è la dichiarazione della Commissione secondo la quale la Gran Bretagna si trova già da ora in una situazione che giustifica l’attivazione del “freno di emergenza”: non è difficile prevedere che sulla prova di questa circostanza non pochi Paesi membri daranno battaglia.
                         ******
La sensazione, nel complesso, è che il Presidente del Consiglio Europeo su alcuni punti si sia spinto al limite della frontiera della compatibilità con i principî, e qualche volta l’abbia anche superata, in un tentativo il cui esito positivo, per quanto riguarda la valutazione che ne darà l’opinione pubblica inglese, non appare affatto scontato.
Comunque vadano le cose, l’Unione uscirà da questa vicenda con qualche ammaccatura in più. Se l’elettorato inglese non sarà soddisfatto del compromesso finale e voterà per l’uscita dall’Unione, le conseguenze su una opinione pubblica europea già disorientata di sé potrebbero essere molto rilevanti. Se invece deciderà di restare, le nuove misure che saranno introdotte risponderanno prevalentemente ad interessi britannici e gli stati membri che vorranno approfondire l’integrazione dovranno comunque fare i conti con un partner recalcitrante che non esiterà a sollevare il problema della compatibilità di questi avanzamenti con la tutela dei suoi interessi ogni volta che ne avrà l’occasione.
Non resta che attendere poche settimane. Ma la risposta al quesito di fondo se e come sia possibile mantenere all’interno della stessa realtà soggetti portatori di visioni completamente diverse può essere rinviata, ma non elusa indefinitamente.

                                                                                                                           

CIRCOLO DI STUDI DIPLOMATICI «Lettera Diplomatica»
Direttore Resp.: Roberto NIGIDO