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Femminicidio politico

Alberto Pasolini Zanelli
“Femminicidio” è stata fino a poco tempo fa una parola di moda, sgradevole, irritante, vascello di demagogia ma anche di autentiche strette cuore. Cominciava, adesso, a diventare un po’ meno di moda, senza che le cose siano cambiate gran che per le donne e magari anche per gli uomini. Ciò che si avanza adesso è una versione certamente più morbida: il femminicidio politico, quello con cui stiamo facendo conoscenza in tutto il mondo ma che viene essenzialmente dal Sud America. Magari era inevitabile, come fenomeno di reazione, nel campo appunto politico, era forse destinato a succedere all’altra ondata che negli ultimi anni ci è arrivata dai Paesi più grandi della grande America Latina. La parola agli inizi di questo decennio era Matriarcato. Un intero continente si andò rapidamente rifugiando nelle braccia di politicanti gentili. I nomi vengono sulla punta della lingua anche a chi poco si occupa dell’emisfero meridionale in genere. Michelle Bachelet: Cile. Cristina Kirchner: Argentina, erede in tutto di Isabela Peron. Sono solo i nomi più famosi Dilma Rousseff: Brasile. Più i, anzi, le “minori”. Si tentò anche di capire il perché della svolta al femminile proprio in terre con una lunga e poco felice tradizione dei colpi di Stato delle dittature militari. Le donne come “rivoluzionarie”, alla loro maniera, che non disdegnavano, come nel caso della Kirchner e delle sue radici in Evita, le eredità ma neppure forme più tradizionali di militanza. L’esempio massimo è proprio Dilma, che il potere l’ha “ereditato” da un rivoluzionario pacifico come Lula ma che in gioventù aveva militato anche come guerrigliera con tanto di uniforme e mitra in spalla nella giungla: anche se non sparò mai un colpo a causa di una miopia micidiale. Fra tutti i Paesi del matriarcato, fu proprio il Brasile ad avere il maggior successo. Il “miracolo a Rio” fu il più grosso e il più inatteso. L’Argentina, purtroppo si sa, deambula da una crisi all’altra, anche se ha generato una nostalgia che non muore, nel nome di Evita e di Juan Peron.
Anche il Brasile era in condizioni pessime quando “Lula il Metallurgico” arrivò al potere. Ci si aspettava un peronismo in peggio. Il leader non era proprio noto come economista, la sua qualità più evidente era il coraggio che lo faceva assomigliare, più che agli altri caudillos latinoamericani, a un altro combattente di origine operaia, il polacco Lech Walesa, una specie di Gandhi dei cantieri di Danzica che diede l’ultima spinta al crollo del comunismo. Come risultato delle riforme, anzi, Lula fece molto, di più e di meglio, di Lech. Fu eletto e rieletto e rieletto. La Costituzione brasiliana gli proibì di andare oltre e allora egli si scelse per erede Dilma, soprannominata fra l’altro “Giovanna d’Arco della giungla”. Una “ragazza” in più di un modo eccentrica, figlia di un bulgaro, profugo ma non dal regime comunista bensì da quello che c’era prima. Ma aveva studiato anche economia e per un certo tempo dissero che era stata lei a insegnare a Lula a “fare di conto”. I risultati furono dunque straordinari, inattesi.
Negli anni di Lula trenta milioni di brasiliani poveri trovarono un posto in una classe media che nasceva solo allora. Grazie a una serie di riforme molto coraggiose e “spinte”, ma che non escludevano una collaborazione con la élite finanziaria. Nei dicasteri economici di Lula banchieri molto conservatori sedevano accanto a Dilma. Il contrasto era marcato, soprattutto con il vicino Venezuela di Hugo Chavez. Dal sottoscala il Brasile salì quasi al vertice: perlomeno a quello “alternativo” che ancora è siglato Bric. Sono le iniziali, il Brasile è il primo della lista, seconda la Russia, poi India e Cina: l’alternativa alla “internazionale capitalista”. Non lo superò mai perché su tutti e quattro i Paesi si abbatté, dopo il boom, la recessione, causata principalmente dal crollo dei prezzi delle materie prime (e, nel caso della Russia, da sanzioni politico-militari). La catastrofe coinvolse anche altri Paesi dell’America Latina, da sempre fragili. È tornata una rovente inflazione, si sono ripresentate scelte non più eludibili. Ritorna la disoccupazione di massa, svettano deficit di stile argentino, anche se non ovunque in quella misura. Tutto questo è accaduto negli ultimi anni e ha coinciso con la successione di Dilma Rousseff a Lula.
Dicono gli esperti che la “ragazza” non ha avuto il coraggio di aumentare le tasse, diminuire le pensioni, imporre l’Austerity. Ha preferito ricorrere a una forma diversa di emergenza: ha scelto di distogliere dal Banco centrale grandi somme con cui finanziare il deficit, continuando ad elargire pensioni generose. E offrendo così il fianco a un attacco politico travestito da scrupolo finanziario. Spontaneo ma anche istigato, il malcontento è dilagato finché si è fatto ricorso a un’arma che dovrebbe essere decisiva: l’impeachment. La Costituzione brasiliana è più complessa di quella Usa, richiede diverse “tappe” in Parlamento, che sono state in breve bruciate. Adesso manca solo il voto del Senato. Se andrà come le previsioni ribadiscono, Dilma dovrà andarsene. Quello che spinge di più perché lei bruci le tappe è il vicepresidente, un certo Michel Temer, che ha fretta anche perché dopo tocca a lui. Le accuse che lo riguardano sono in effetti molto più gravi di quelli della tuttora presidente: non riguardano soltanto, come quelle di Dilma, disinvolture di bilancio, ma violazioni di leggi a scopi di lucro personale. Non si prepara, dunque, un solo impeachment, ma almeno due. L’opinione pubblica è sempre più disposta a far “piazza pulita”. E gli organi dello Stato, dalla magistratura in giù, ne condividono l’umore. Nei giorni scorsi si è giunti al punto di mandare gli agenti di prima mattina in casa del vecchio Lula per portarlo a farsi interrogare. E poi rilasciarlo, ma provvisoriamente. Dilma l’aveva incaricato della propria difesa. Nelle strade e nei comizi qualcuno addirittura cita come esempio l’intervento militare di tanti anni fa. Si gratta nella storia per giustificare l’ultimo caso di femminicidio politico.
Pasolini.zanelli@gmail.com