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Un altro golpe, quello di ottant’anni fa



Alberto Pasolini Zanelli
Il resto d’Europa contempla scettica lo svolgimento e il fallimento di un golpe, quello in Turchia, con sentimenti misti, inclinata ad aspettare prima di farsi un’idea. Ma fra le patrie europee ce n’è una che in questi giorni ricorda e rivive un altro golpe, quello di ottant’anni fa, in Spagna. Anche quello fu, tecnicamente, un fallimento: i militari insorti cercarono di impadronirsi delle due città principali, Madrid e Barcellona, ma non ci riuscirono e dovettero aspettare quasi tre anni. Però vinsero perché il golpe si trasformò subito in guerra civile, qualcosa in cui vigono altre regole e che produsse una dittatura durata trentanove anni e chiusa soltanto dalla morte del dittatore. Fu una esperienza che cambiò la Spagna ma non poi tanto, perché da quel decesso sono passati quarantuno anni e Madrid è una capitale fra le altre europee, preoccupata dalle solite ansie di un tempo di recessione, tormentata dalle richieste dei fautori dell’Austerity, paralizzata al punto da non riuscire a darsi un governo al punto di avere dovuto ritornare alle urne dopo sei mesi, con un identico risultato pari e patta.
Un Paese come un altro la Spagna, ma attraverso un’esperienza unica, quel 17 luglio 1936 in cui la legione straniera si impadronì del potere nelle “colonie” nordafricane, quel 18 luglio in cui gli insorti tentarono di mettere le mani su Barcellona, i pochi giorni che passarono prima che si aprisse il fronte di Madrid ebbero conseguenze e ripercussioni in anni critici e tragici per l’intero continente. La guerra civile di Spagna fu l’anticamera della Seconda guerra mondiale, con odii e schieramenti pressoché identici, anche se con risultato opposto. L’Europa seguì le alterne vicende belliche sulle mappe dei quotidiani, che mostravano le “zone nazionaliste” e “zone repubblicane”. Paesi diventarono famosi perché sede di importanti battaglie, che coinvolsero i sostenitori degli opposti schieramenti: l’Italia fascista e la Germania nazista appoggiarono fin dal primo giorno il capo della “sedizione”, il generale Francisco Franco; l’Unione Sovietica mise a poco a poco le mani sullo schieramento opposto, le democrazie si indebolirono o si astennero. Si ricordano anche oggi Guadalajara, dove gli italiani delle Brigate Internazionali sconfissero i legionari fascisti, la traversata dell’Ebro, decisiva per i nazionalisti, le bombe su Guernica, anteprima della guerra aerea contro i civili fra il 1939 e il 1945; le epurazioni feroci condotte anche in questo caso dai vincitori. L’impegno di militanti, patrioti, artisti e intellettuali di tutta Europa e anche altrove. Hemingway che componeva le sue corrispondenze in un bar di Madrid, André Malraux alla guida di aerei da caccia, Federico Garcia Lorca assassinato nella sua terra ancora non si sa da chi e perché, Josè Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange, fucilato quasi nello stesso giorno in una galera “repubblicana”, Georges Bernanos, attratto da cattolico dallo schieramento franchista e allontanatosene dopo aver sperimentato le crudeltà delle “epurazioni” condotte nelle Baleari da un vecchio squadrista italiano; Edgardo Sogno, volontario anticomunista nelle fila “franchiste” e sulla strada di meritarsi pochi anni dopo una medaglia d’oro della Resistenza per il suo impegno antinazista.
Chi era vivo in quegli anni conosceva almeno qualche parola o qualche nota delle canzoni che questa guerra generò: “Il Partito comunista / sempre primo nel cimento / per far meglio la guerra / fondò il Quinto Reggimento”. “Allacciami le scarpe / dammi la boina, dammi il fucile / che vado ad ammazzare più rossi che i fiori che contiene il mese di aprile” (inno di guerra “carlista”) e naturalmente la più famosa di tutte: “Cara Al Sol” (La faccia al sole, con la camicia nuova / su cui ricamaste ieri il mio distintivo / mi coglierà la morte se mi prende / e non tornerò a vederti. Sarò in Cielo assieme ai camerati /. La indosserò assieme ai miei camerati che montano la guardia fra le stelle”.
L’ultima volta che mi capitò di sentirla fu in una piazza sotto a un balcone da cui parlava Franco. Veemente più del solito, come se sapessero che era l’ultimo discorso prima della malattia e della morte. Lo appellò il cardinale primate di Spagna con il vecchio saluto fascista: “Caudillo de Espana, presente”. Poi tutto cambiò, pacificamente, gradualmente, nel modo opposto a quello che i trentanove anni passati avrebbero fatto pensare. La Spagna si stava già preparando, in segreto, a ricongiungersi con l’Europa nel campo della democrazia. La condussero dapprima gli ex franchisti. Uno che non aveva capito, un militare di nome Tejero, tentò, anche lui, un golpe occupando il Parlamento: durò meno di due giorni. Ci misero molto di più a eliminare i monumenti al dittatore defunto, con molta misura, oserei dire eleganza: il modo migliore per non generare nostalgici. A Franco è rimasto, e non è poco, il tempio che lui aveva fatto erigere tra le montagne. Un cimitero in cui furono sepolti, almeno in teoria, i caduti delle due parti della guerra civile e un santuario. Una chiesa con due sepolcri: Franco e José Antonio. I muri decorati con immagini sacre, ma tratte esclusivamente dall’Apocalisse. Un ricordo dolorosamente fedele.