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La battaglia decisiva


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Alberto Pasolini Zanelli
Lo dicono da qualche giorno i bene informati: in Siria è cominciata la battaglia decisiva, perlomeno per le sorti dell’Isis in questa sua roccaforte. L’esercito di Assad avrebbe sferrato l’offensiva destinata a spazzare via, dopo cinque anni di guerra, il nemico principale. Una morsa si è stretta attorno ad Aleppo, la storica città occupata da tempo dai soldati del Califfo, vi partecipano anche reparti militari russi e, in numero crescente, guerriglieri delle milizie iraniane. Agli assediati sono stati diretti ultimatum ma anche un’offerta che dovrebbe sottolineare la potenza di chi la fa: amnistia per chi si arrende e salvacondotto per uscire dalla “sacca”. Qualcuno ne avrebbe già approfittato, ma la massa dei civili è ancora chiusa dentro, sotto le bombe, esposta ai cannoni, alle bombe e alla fame. Il mondo se ne preoccupa, soprattutto l’Europa, ma con una intonazione inedita: c’è chi teme proprio che l’offensiva riesca appieno, che i guerriglieri della Jihad finiscano con l’abbandonare in massa il territorio siriano. E allora, ci si chiede, dove andranno? Una risposta non c’è ma il silenzio è molto limpido: quei guerriglieri potrebbero spandersi in Europa e combattere la stessa guerra con altri metodi. Cioè come guerriglieri. Da Aleppo a Parigi, in Germania, da noi.
Che intanto ci uniremo agli Usa per bombardare la roccaforte dell’Isis in Libia. Gli americani hanno già cominciato e continueranno, fa sapere il Pentagono, per almeno dieci giorni. L’obiettivo è Sirte, una roccaforte pressappoco a metà strada fra Tripoli e Bengasi, cioè fra le sedi dei due governi libici rivali, il primo dei quali ha formalmente chiesto l’intervento militare “alleato”. Gli hanno detto sì, parola mai usata in risposta a ipotetiche richieste di aiuto da parte del governo siriano. La limitazione è “tecnica”, strategica e politica. Per Barack Obama si avvicina il giorno dell’addio alla Casa Bianca ed egli vuole andarsene mantenendo almeno una promessa: quella di partecipare a guerre in cui, al livello del possibile, muoiono solo i nemici e non i soldati Usa; perché quel conflitto diventerebbe subito impopolare presso un’opinione pubblica che non condivide le raccomandazioni dell’establishment, soprattutto repubblicano e fortemente interventista. Ad agire in Libia e dall’aria si mantengono diverse garanzie oltre a quella appena ricordata: minore rischio anche per la popolazione civile essendo l’area assai meno popolata; assenza di forze militari “grigie” o dai colori cangianti, cioè non jihadiste della versione Isis ma sempre avverse al regime di Damasco. E infine si sfugge al penoso rischio di trovarsi scopertamente in una collaborazione bellica con la Russia. Che è in corso da tempo in Siria ma su fronti determinati e senza troppa pubblicità. Rinnovarla in una battaglia che potrebbe essere decisiva renderebbe il gioco troppo scoperto e impopolare in un momento in cui le relazioni fra Washington e Mosca continuano a peggiorare, torturate di recente anche da una denunciata “complicità” del Cremlino nella pubblicazione dei documenti segreti del Partito democratico e altri che coinvolgono molto probabilmente Hillary Clinton e potrebbero danneggiare la sua campagna elettorale. Se tutto andrà bene, tuttavia, un vantaggio ci sarà, anzi almeno due. L’Isis sarà privata di una “capitale” di riserva nel caso dovesse sgombrare le sue roccaforti in Siria e in Irak e potrebbe “resuscitare” sia pure in minima misura, il mito e la promessa della “primavera araba”: un Medio Oriente stabile e democratico. Non lo era abbastanza al “via” di cinque anni fa. Oggi lo è drasticamente ancora meno, ma il mito non è stato ancora rimesso nel cassetto ufficialmente.
Una “soluzione elegante”. Di cui farebbero le spese una volta di più i Paesi che avrebbero dovuto essere i beneficiari. A cominciare dalla Libia che potrebbe ritrovarsi con un governo almeno formalmente solo e chissà, magari anche l’Irak. Certo non lo Yemen, su cui l’intensità della guerra aerea saudita supera nettamente quella dell’intervento russo dalle parti di Aleppo. Tanto meno, insomma, la Siria, da cui continuano a fuggire profughi e non soltanto terroristi iperislamici. L’ultimo esempio noto è quello di una giovane nuotatrice, che è arrivata a Rio de Janeiro in tempo per partecipare alle Olimpiadi. Per arrivarci ha dovuto percorrere i soliti sentieri di tanti suoi connazionali ma qualcuno in più: si è gettata da un pericolante gommone e si è affidata alle proprie bracciate, raggiungendo così a nuoto le coste della Grecia. Lì ha raggiunto Berlino, dove ha potuto allenarsi in una piscina olimpica che risale al 1936, alle “olimpiadi di Hitler”. In Brasile competerà in un team di profughi e “senza patria”. Ha 18 anni, si chiama Yusra Madini e fa venire in mente, almeno ai non giovanissimi, un paio di versi di Carducci nel “Ca ira” e dedicate ad una vittima del Terrore giacobino, secondo una leggenda costretta a bere da un calice il sangue del padre. “Sei la Francia tu, bianca ragazza?”. Bianca in quel contesto significa pallida e dunque si applica anche alle prove che questa inconsueta profuga ha dovuto subire o affrontare. La medaglia d’oro lei ce l’ha già.