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Donald Trump ha sparato l’ultima raffica

Alberto Pasolini Zanelli
Donald Trump ha sparato l’ultima raffica. Anzi, un paio di raffiche nell’ultima occasione che gli si è offerta nel testa a testa conclusivo con Hillary Clinton. Un paio di colpi a casaccio e qualcuno mirato gli hanno consentito di ottenere il suo miglior risultato in un dibattito, ma non abbastanza per capovolgere la tendenza preelettorale. Anche stavolta ha vinto la candidata democratica, però con la percentuale più bassa tra tutti i confronti diretti, il 52 per cento. E ha sfiorato il rischio di trovarsi per una volta indietro. È stato quando il candidato repubblicano ha tirato fuori la sua ultima arma, non segreta ma tenuta finora nel cassetto: l’aborto. Con un appello ben mirato alla forte ala del repubblicanismo conservatore di costume e religioso, Trump si è scagliato contro Hillary, che da democratica tradizionale è sempre stata prudentemente ma sostanzialmente “morbida” su questo tema, accusandola di favorire anche la forma più controversa di interruzione delle nascite: quella a “gravidanza avanzata”, che le autorità religiose e la destra repubblicana paragonano all’uccisione di un bambino. Questo è un tema tenace degli scontri fra i due partiti, con tante battaglie nei diversi Stati, nelle corti, nei referendum. Quest’anno era rimasta, come si diceva, nel cassetto e Trump l’ha ritirata fuori sperando di cogliere impreparata l’antagonista.
Così è stato solo per metà, soprattutto inizialmente. Poi Hillary si è ripresa ed è passata al contrattacco su un tema pericoloso non solo per Trump ma per i repubblicani in genere: la Corte Suprema, cui è stata staccata la spina dopo la morte del giudice Scalia, un superconservatore. Il presidente Obama avrebbe dovuto scegliere il successore da sottoporre al voto del Congresso ma i repubblicani, che detengono solide maggioranze sia al Senato, sia alla Camera, hanno preannunciato il loro rifiuto fino alla successione alla Casa Bianca in gennaio. Non è solo una questione di principio: l’attuale opposizione ideologica della Corte ha prodotto fra l’altro una sentenza assai discussa: l’autorizzazione a sostenitori privati di elargire ai candidati somme di denaro senza limiti. Un chiaro vantaggio per i repubblicani, che una Corte cambiata potrebbe togliergli. E questo è fra i programmi della Clinton.
Il dibattito, che si è tenuto a Las Vegas, è rimasto così acceso fino alla conclusione, quando Trump ha giocato quella che può essere stata la sua ultima carta: denunciando le irregolarità che si vanno preparando in molti seggi elettorali, al punto da mettere in pericolo l’onestà del voto presidenziale. E ha invitato gli attivisti repubblicani e gli elettori in genere a “controllare le operazioni di voto per prevenire gli abusi”. Altrettanto arroventata e indignata, la risposta della Clinton: “Ci vogliono rubare i nostri voti”. Anche questa in realtà è una polemica antica e non priva di fondamento. Coltivando ciascuno il proprio interesse, i partiti hanno presentato spesso soluzioni nel proprio interesse. I repubblicani di solito vanno più numerosi alle urne, non tanto nelle elezioni presidenziali, quanto nelle votazioni per eleggere senatori, deputati e governatori. Questo perché sono in genere adulti, disciplinati e di etnie europee. I democratici puntano soprattutto sulle minoranze etniche, meno preparati o abituati e cercano dunque di facilitare al massimo l’accesso alle urne anche “saltando” sulla mancanza di una parte almeno di documenti di identità. Una operazione che ha avuto particolare successo quando si è trattato di appoggiare Barack Obama. I repubblicani dal canto loro reagiscono cercando invece di rendere l’affluenza alle urne il più ridotta possibile con l’esclusione degli elettori spinti alle urne dai partiti. Ci sono esempi molto lucidi, per esempio nelle “città” universitarie, dove gli studenti hanno una doppia residenza: quella di ateneo e quella di famiglia. Brogli ci sono stati, soprattutto in passato. Il repubblicano George W. Bush diventò presidente con una maggioranza di 532 voti in Florida, contestati per settimane dai democratici. E perfino sull’elezione di John Kennedy nel 1960 restano le ombre di irregolarità da parte dei democratici a Chicago, riassunte nella frase attribuita al sindaco: “Andate alle urne e votate, votate, votate”. Trump ha ritirato fuori questo tema e ha annunciato, con un gesto più teatrale che concretamente attuabile, che se ci saranno irregolarità non riconoscerà il risultato delle elezioni presidenziali. Di qui la controaccusa circa il “furto dei voti”. Ma si tratta di parole. Non ci sono leggi che prevedono che il candidato sconfitto possa fare annullare le elezioni. E un portavoce del candidato repubblicano si è gettato subito nel fuoco per spegnerlo: “Naturalmente Trump riconoscerà l’esito delle elezioni. Per un semplice motivo: che vincerà lui”. I sondaggi dicono, però, che Hillary è ancora in testa, sia pure con un margine ridotto: 47 per cento contro il 42 per cento del rivale.
Pasolini.zanelli@gmail.com