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In Spagna è nata forse una nuova varietà di eurocrisi



Alberto Pasolini Zanelli
In Spagna è nata forse una nuova varietà di eurocrisi, politica ma non economica. Madrid si appresta a dimostrare ai vicini che dopotutto un Paese può andare avanti, neanche troppo male, senza bisogno di un esecutivo e di un Parlamento. Non che queste due branche istituzionali siano sospese o “liquidate”. Le Cortes sono in funzione, riescono a passare qualche legge, più spesso a bocciarle, rimanendo fedeli alla loro tenace conformazione, senza una maggioranza. Il lavoro del Parlamento continuerà ad essere separato da quello del governo. In altri Paesi una tenace ingovernabilità conduce quasi fatalmente a una rapida alternanza fra insediamenti e dimissioni, in base al principio generalmente accettato e altrove usualmente rispettato, che c’è bisogno che qualcuno regga il timone. Se non ce la fa, tocca a un altro e così via.
A Madrid è diverso e lo dimostrano le vicende di quest’anno, mese per mese, settimana per settimana, giorno per giorno e quasi minuto per minuto. Nel 2016 si è votato due volte per eleggere una Camera cui spettasse scegliere un primo ministro. Nell’ottobre 2015 il premier in carica era il conservatore Mariano Rajoy, lo stesso che governava da molti anni basandosi su una consolidata tradizione di Paese bipartitico, una formula nata si può dire il giorno dopo la morte del dittatore Francisco Franco nel 1975 e il passaggio indolore alla democrazia. Dalle prime elezioni in quarant’anni erano usciti una destra e una sinistra, guidate da un Partido Popular in cui si ritrovavano i conservatori e un Partido Socialista Obrero Espanol, che inglobava quasi tutta la sinistra. Le maggioranze duravano un paio di legislature, poi subentrava il ritmo del ping pong e maggioranza e potere passavano all’opposizione. Accadde, ad esempio, nel 2005, quando l’impopolarità dell’intervento spagnolo nella guerra di Bush in Irak fece rimbalzare al potere i socialisti, essendo sconfitto il nuovo leader della destra Mariano Rajoy. Che poi tornò al potere, impegnato a gestire la versione iberica della crisi da euro. Il compito gli pareva così arduo che si lasciò sfuggire di invidiare Mario Monti.
Però tirò innanzi, mentre nel Paese cresceva la protesta, articolatasi infine in due nuovi partiti. Uno di sinistra, che dissanguò la tradizionale opposizione socialista e aveva e ha nel nome un preciso riferimento estero: Podemos è la traduzione del “Yes, We can”, il felice slogan di Barack Obama. L’altro era ed è invece di centro, semmai orientato verso la destra, anche se il suo nome suona al contrario giacobino: Ciudadanos, “Citoyen” come nella Marsigliese, ma “cittadini”, da noi.
Da due i partiti “nazionali” spagnoli (esiste ancora un Partito comunista, e le formazioni politiche regionali, dai catalani ai baschi alla pittoresca Union del Pueblo Canario). Una combinazione di cifre che rese da allora sistematicamente impossibile trovare una maggioranza. Non nel 2015, come abbiamo visto. Non nelle due elezioni del 2016, dagli esiti variabili (soprattutto per quanto riguarda Podemos, dal successo a singhiozzo) ma non nelle sorti del Partito socialista, che ha continuato perdere regolarmente terreno. Mariano Rajoy arrivò ogni volta primo, ma non si avvicinò mai a una maggioranza capace di governare. La “Spagna dei Quattro” non riusciva o non voleva ripetere i compromessi di quando a giocare erano solo in due e quindi l’incarico di formare un governo veniva “proposto” a questo o a quello e ostinatamente rifiutato. Gli ultimi tentativi risalgono a un paio di settimane e di giorni fa. I conservatori proposero una “grande coalizione” con i socialisti cercando anche i voti centristi, ma si scontrarono ogni volta in un “no”, coerentemente pronunciato dal leader del Psoe, il giovane Pedro Sanchez. Diventò dunque di nuovo un obbligo convocare per l’ennesima volta gli elettori. Il termine ultimo per formare un governo scadeva il 31 ottobre. Messi alle strette si svegliarono i due leader storici del Partito socialista, Felipe Gonzalez e José Luis Rodriguez Zapatero. Non volevano tornare al potere ma “far fuori” Sanchez. Reagirono al suo ennesimo “no” a una collaborazione con Rajoy mettendolo in minoranza della commissione esecutiva del Partito socialista. Dopodiché non rimase a Sanchez che dimettersi a sua volta. Rimasto senza timoniere il vecchio partito trovò stavolta una scappatoia: è adesso disponibile non a votare la fiducia al vecchio leader conservatore, ma a non votargli una sfiducia, permettendogli così di riassumere la guida del governo in attesa degli eventi.
La novità degli ultimi giorni è che i socialisti una volta tanto si sono astenuti sulla sua richiesta della fiducia. Concessione straordinaria, dovuta al fatto che, tramontata la stella di Sanchez, ne è emersa ora una nuova. Viene dall’Andalusia, storica regione “rossa” e si chiama Susana Diaz, nata nel popolarissimo quartiere Triana, così frequente nella poesia e nelle canzoni della vecchia Spagna, quelle dei toreri e del flamenco. È lei che permetterà a Rajoy di provarci per l’ennesima volta. Non è però l’unica carta in mano al tenace conservatore. L’altra è una cifra. Mentre si dibatteva nell’assenza di un governo, la Spagna sta rinascendo sul terreno economico: la crescita che tanto ci elude toccherà il 3 per cento entro la fine di quest’anno, la disoccupazione è in calo. Toccherà a Renzi, stavolta, invidiare Rajoy.