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Ukase dal “trono di Trump



Alberto Pasolini Zanelli
Non era mai successo nell’immediato indomani dell’elezione di un nuovo presidente Usa. Nemmeno quando a salire alla Casa Bianca fu, otto anni fa, Barack Obama, il primo leader di pelle nera. Se c’erano tensioni egli seppe addolcirle con una serie di discorsi e dichiarazioni apparentemente programmatici ma in realtà sconfinanti a volte nella morale e nella filosofia. Da Donald Trump nessuno si attendeva questo. La gente si aspettava soprattutto gesti di azione. Non ukase dal “trono”, ma indicazioni che confermassero o i timori di molti o la fiducia dei pochi. È un modo di dire, evidentemente, perché i “pochi” erano più dei “molti”, tanto è vero che hanno vinto.
Questo lo sguardo dal di fuori. Capovolgendo i ruoli, Trump si sta dando da fare per accontentare un po’ tutti, sforzandosi di mettere in piedi rapidamente ma non troppo in fretta (Obama rimarrà in carica fino al 20 gennaio) un team di governo che già dalla sua costituzione indichi le intenzioni per il futuro. Ha cominciato a farlo dal Partito repubblicano, che da decenni è stato governato da una specie di coalizione fra tendenze conservatrici: una destra economica tradizionalmente “capitalista”, una destra “sociale”, cioè tradizionalista, una destra militante (e militare) che gestiva nei limiti del possibile il dominio americano sul mondo.
Questo equilibrio è stato incrinato non da una sconfitta come succede di solito (e come sta accadendo nel Partito democratico) ma da una vittoria sorprendente in tutti i sensi, comprese le dimensioni: i repubblicani hanno riconquistato dopo otto anni la Casa Bianca, mantenuto il controllo del Senato, ampliato quello della Camera e dilagato nella elezione delle cariche dei singoli Stati. Meglio di così aveva fatto solo Ronald Reagan, e neppure di tanto. Tutto questo sotto la leadership di un uomo totalmente privo di qualsiasi esperienza politica, sceso in campo nelle primarie come “ribelle”, subito “scomunicato” dall’establishment come un estraneo pericoloso. E che invece ha vinto praticamente da solo e spesso colpito alle spalle anche dai suoi “compagni” di partito. E che dunque deve cambiarlo, ma nello stesso tempo ricucirlo.
Ecco allora le sue prime scelte, che sono essenzialmente “doppiette”. Un moderato e una “testa calda”, accoppiati in modo che possano riconciliarsi, conoscersi e imparare a lavorare assieme. Compito difficile, anzi impossibile se si tenesse conto soltanto del contenuto e delle forme dei dibattiti di partito durante le “primarie” e anche dopo. Qualcuno sta già tornando a Canossa, dopo essersi distinto in una intransigenza magari non del tutto ingiustificata, culminata nella pronuncia di vere e proprie scomuniche: “Trump non è un repubblicano”.
Adesso che è stato scelto per la presidenza gli si riconosce almeno questa definizione. Ma in concreto il suo compito rimane difficile e non è detto che gli “accoppiamenti” più o meno astuti riescano tutti. In campo economico, dove è forse meno arduo ma in cui le direttive presidenziali sono svariate, da una diminuzione radicale delle tasse alla ripulsa di nuovi accordi internazionali di indirizzo “globalistico”. “Più mercato e meno Stato” ma all’interno del sistema americano e il contrario verso l’esterno. Così come nella politica estera: “Più armi e meno guerre” è il versetto non recitato del dogma trumpiano: aumento delle spese militari, dialogo al posto delle crescenti tensioni con la Russia, realismo nel Medio Oriente, probabilmente a cominciare dall’interruzione degli aiuti militari ai “ribelli” siriani contro il presidente Assad.
Una strategia che si fonda molto su un mutato rapporto con Putin, di cui sono state gettate le basi sia nelle dichiarazioni dell’uomo da tempo insediato al Cremlino, sia in quelle del nuovo leader Usa. Ora sarà tempo delle iniziative concrete, che non sono note e che danno urgenza sia alle speranze di molti, sia ai timori di altri, forse meno numerosi nel pubblico ma in consolidate posizioni di potere. È curioso che uno dei maggiori sostenitori di un rinnovato “disgelo” da Mosca sia un importante leader militare, il generale Flynn, molto più “pacifico” dei numerosi “falchi” che non vivono solo nelle fila del Partito democratico ma altrettanto e forse più in posizioni chiave nel Partito repubblicano. In cui potrebbero allestire la più robusta e ostinata linea di resistenza contro le innovazioni che Donald Trump potrebbe proporre ufficialmente una volta insediato alla Casa Bianca.