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Natale di sangue



Alberto Pasolini Zanelli
Natale di sangue: è una formula quasi sacrosanta nel suo allarmismo, esatta, imprecisa, demoralizzante. Ma obbligatoria al cospetto degli eventi delle ultime ore. Quello atteso, più chiassoso che veramente drammatico, è la conferma dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti. Una formalità cui la attenzione dei giorni e dei mesi passati ha conferito una tensione e una attesa impropria. In America sono volate, infine, soprattutto parole, agitate, a torto drammatizzate, allarmanti solo per le tensioni che l’occasione ha rivelato in quella che doveva essere una routine politica e che invece ha fornito uno spettacolo confinante con l’isterismo, da tutte le parti ma soprattutto nell’area delle opposizioni. La serietà, il dramma, l’allarme è suonato da altri due capitali e da altri due Paesi, con sinistra coincidenza e con una scelta di tempo che, se calcolata, fa a buon diritto paura.
A Berlino una strage, ad Ankara un assassinio calcolato, organizzato, chiaramente motivato. I colpevoli dei due fatti di sangue sono strettamente collegati. La mano che ha ucciso è, al di fuori delle identità burocratiche nazionali, una matrice sola. Islamica. Ed è “nutrita” dall’elemento veramente nuovo di queste ultime settimane, della battaglia più grossa, più determinata e più chiara. I terroristi che hanno replicato a Berlino la strage di Nizza, nel suo colpire a casaccio cercando soprattutto il numero dei morti e l’assassino solitario e “professionale” che ha ucciso l’ambasciatore russo in Turchia hanno almeno due legami ovvii: la fede islamica nella sua accezione jihadista e l’evento che con ogni probabilità ha fatto scattare la molla: la fine, dopo cinque anni abbondanti, di un esperimento ad un tempo estremo e mirato e una misura di “stile” anarchico. Il collegamento l’ha tratto lo stesso attentatore prima di perdere a sua volta la vita. Il nome è Aleppo, come l’assassino ha proclamato, invitando con il suo gesto a “non dimenticare”. Una differenza di “stile” c’è stata tuttavia e importante. Il bersaglio, che a Berlino ancora una volta è stato scelto a casaccio, ad Ankara ha investito direttamente la struttura e la macchina dello Stato di una delle grandi potenze planetarie. Gli autori, o i mandanti, non hanno voluto uccidere dei russi ma colpire la Russia, punirla per le sue scelte di Stato. Sparare all’ambasciatore russo in Turchia equivale a una azione militare o almeno paramilitare, a una dichiarazione di ostilità se non addirittura di guerra. Quando l’“operazione Aleppo” si presentò, non distinguibile allora dagli altri punti della offensiva dell’Isis in terra siriana e irachena, con la pretesa della fondazione di uno Stato, aveva un bersaglio limitato, un regime autoritario anche se non proprio dittatoriale, lo Stato più “laico” dell’intero scacchiere mediorientale, in cui cinque anni fa la sola forza “estranea” era quella dell’Occidente e dunque dell’America, sullo slancio della “primavera araba” lanciata con cieca fiducia e uno schieramento amici-nemici chiaramente limitato. Doveva, forse poteva essere un golpe su scala internazionale, rivolto forse subito contro gli sciiti da parte degli estremisti sunniti e con una fascia residua della “benevolenza” dell’Occidente e, soprattutto, dell’America. Era, lo si vide subito e quasi tutti ne sono oggi convinti, una “rivoluzione controrivoluzionaria” rivolta contro i residui della credibilità europea, la fiducia nella “benedizione” di Washington. E il bersaglio era ben determinato anche se non dichiarato: l’eliminazione di un regime. Anzi di due, perché Bagdad è in questo gemella di Damasco. Il regime di Assad, “cugino” superstite dopo l’eliminazione di quello di Saddam Hussein, non era e non è né fondamentalmente integralista, né modernamente “liberale”. Le sue origini ideologiche risalgono addirittura agli anni della Seconda guerra mondiale ed essendo anticoloniale era rivolto contro le potenze coloniali dell’epoca, cioè quelle classificabili come “democratiche” e quindi si ispirava, almeno in parte, al fronte contrapposto nel mondo degli anni Quaranta, rivelato anche dallo stesso nome, Baath, dichiaratamente nazionalista e non confessionale, con una caratura “laica e socialista”, o meglio nazionalsocialista con dichiarate simpatie fasciste. Lo stesso partito con lo stesso nome governava allora l’Irak e la Siria e con l’Egitto di Nasser aveva un rapporto soprattutto concorrenziale. Si faceva così nemico i grandi protagonisti della Guerra Fredda, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, soprattutto a decolonizzazione avanzata e apparentemente più “razionale” e promettente con il fiorire della Primavera. Un sogno che ha mostrato subito la sua fragilità, diventata evidente proprio nello scacchiere siriano. Il Medio Oriente di quella formula o di quelle formule concorrenziali ha finito con l’assomigliare alla Guerra Fredda dei grandi, di cui è diventato l’erede e che, sepolta a Berlino e a Mosca, con la caduta del Muro e poi con il crollo dell’Urss, ma che rischia ormai di esserne l’erede e la resurrezione. Limitatamente a quella parte del mondo, ci sono ormai due schieramenti, come un quarto di secolo fa in Europa. Fra Bagdad e Damasco i rapporti fra Stati Uniti e Russia sono ridiventati tesi, rischiando di avvelenare il quadro di un mondo postbellico. A questo rinnovo di tensioni hanno contribuito prevalentemente, oltre ai protagonisti in loco, le incertezze e le contraddizioni di Washington, che hanno rivelato un’America sempre potentissima ma con le idee poco chiare e il suo antico gusto di far fare le guerre agli altri, aiutandoli. Particolarmente in Siria, questo conto non è tornato e ha avuto successo crescente, invece, la formula spicciativa, “laica” e diretta di Vladimir Putin. Anche dalle reazioni degli ultimi anni dell’Amministrazione Obama è apparso sempre più chiaro che la “battaglia di Aleppo” e forse la guerra, l’ha vinta il Cremlino e la sta perdendo la Casa Bianca. Forse Donald Trump riuscirà a invertire la rotta e ad avviare, nella migliore delle ipotesi, una “minidistensione”. Ma per il momento la Russia “risorge” almeno nello scacchiere mediorientale, aprendo così la questione di una “ripresa” per l’America e per il suo nuovo leader, la cui vittoria elettorale è stata ufficialmente sigillata proprio nelle ore in cui protagonisti di un estremismo vecchio hanno colpito i civili berlinesi per un proclama di sangue e il “funzionario” russo che aveva in questo momento la più difficile delle missioni. E la più pericolosa.