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Età d’oro del giornalismo, eppure c’è una cacofonia di rumori



Francesca Armaroli (MICRI 6)

“Conformità di voleri”, “accordo di opinioni individuali”, e ancora: “nel linguaggio politico appoggio, favore espresso da gruppi e strati sociali alla politica di chi sta al potere”. Queste sono solo alcune delle definizioni fornite dal vocabolario della Treccani quando si cerca la parola “consenso”; pur avendone chiara la definizione, però, quello che viene spontaneo chiedersi, soprattutto in luce di fatti recenti, è quali siano i soggetti che ricevono consenso da parte della società e quali siano le modalità con le quali cercano di ottenerlo.
Basti pensare alle elezioni presidenziali americane che hanno visto vincitore un insospettabile Donald Trump, la “Brexit”, l’insorgere di partiti nazionalisti come il Front National francese e lo Ukip britannico.
A cosa è dovuta la scalata alla Casa Bianca di Donald Trump? Cos’ha spinto i cittadini britannici ad uscire dall’Europa? Perché i partiti della destra nazionalista hanno un seguito sempre più vasto?
La risposta è semplice: sono tutte situazioni diverse ma che hanno una cosa in comune: la modalità utilizzata per attrarre consenso.
Pochi programmi politici e contenuti, molti appelli spontanei, spesso fuori dalle righe, mirati a far leva sulle emozioni della gente.
Una deriva pericolosa favorita in buona parte dalla perdita di credibilità del sistema e dall’incapacità della classe dirigente di offrire soluzioni valide per risolvere problemi, limitandosi a comizi sterili dove fa valere le proprie ragioni chi attacca con più forza l’avversario.
Ed ecco allora che un Donald Trump che proclama la costruzione di un grande muro ai confini con il Messico, che usa epiteti sessisti per riferirsi alle donne, che taccia tutti i musulmani di essere un pericolo in quanto tali non scandalizza, anzi piace; per i suoi sostenitori “anche se dice cose che la gente non vuole sentire almeno dice la verità”, “non si sforza di essere politicamente corretto, quelli che lo fanno di solito non sai nemmeno di cosa stanno parlando”.
L’oggettività non è più importante nella formazione dell’opinione pubblica, quello che conta è il richiamo alle emozioni. Le conseguenze? Il dilagare del “sentito dire”, di notizie false, spesso create ad arte per accattivarsi un pubblico poco incline all’analisi.
E che questo approccio all’informazione funzioni non è poi così sorprendente se si considera che, secondo uno studio della Stanford University, l’80% dei giovani in età scolare non è in grado di riconoscere una notizia falsa da una vera: in particolare gli studenti universitari non sono in grado di stabilire se un tweet è fonte di informazioni affidabili o meno.
La facilità con cui tutti noi possiamo reperire informazioni è diventata un’arma a doppio taglio: da una parte abbiamo a nostra disposizione strumenti che ci consentono l’accesso a una fonte inesauribile di notizie, dall’altra l’incapacità di valutarne la veridicità, le fonti, gli attori coinvolti nella loro creazione ci rende vittime di facili generalizzazioni.
“Se è online probabilmente è vero”, “la testata mi sembra affidabile”, “anch’io la penso così, mi sembra giusto” sono solo alcuni dei concetti superficiali che passano per la testa della maggior parte della gente che si approccia al mondo dell’informazione e che prende tutto quello che legge per buono.
Va da sé che quella che si va a creare è una conoscenza sommaria che va ad aggiungersi al bagaglio culturale di quelli che sanno di tutto un po’, veri e propri “tuttologi” che, al momento del confronto con gli altri non sanno né argomentare, né motivare le loro opinioni.
L’opinione personale diventa quindi quasi più importante del fatto in sé; se l’opinione è condivisa da molti, poi, ci si sente ancora più legittimati ad esprimerla pur avendo una conoscenza minima dell’argomento.
Il desiderio di ottenere il consenso altrui mette in secondo piano l’importanza di quello che si dice ed è qui che torna in gioco il modello comunicativo tanto amato da Trump: se la pensi come me bene, in caso contrario tutto quello che devo fare è urlare più forte di te per far valere le mie ragioni, poco importa che queste siano fondate o meno.
I rapporti interpersonali non si basano più su una civile condivisione d’opinioni dove si è d’accordo sul non essere d’accordo, ma su un confronto dove il prevalere delle proprie idee diventa quasi il metro con il quale si misura il valore delle proprie convinzioni: se tutti dicono che è vero allora è vero, se tutti la pensano come me allora ho ragione.
Ma non è tanto la mancanza di senso critico da parte delle nuove generazioni che dovrebbe allarmarci quanto il fatto che gli adulti che dovrebbero insegnare loro gli strumenti per difendersi dalla falsa informazione hanno smesso di dare importanza alla verità.
D’altronde, come dice il giornalista e scrittore Roberto Cotroneo “non ci sono mai state più informazioni, e probabilmente non ci sono mai state così tante informazioni di scarso valore. È il paradosso in cui viviamo: è l’età d’oro del giornalismo, eppure c’è una cacofonia di rumori che probabilmente non è mai esistita prima”.