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Donald Trump è rimasto con la penna in mano



Alberto Pasolini Zanelli
Donald Trump è rimasto con la penna in mano. Impaziente di natura e comprensibilmente esacerbato da sei mesi di dibattito sempre più aspro e quasi quotidiano del progetto di eliminazione della riforma sanitaria di Obama, aveva emesso una sorta di ultimatum incoraggiante: “Sono qui con la penna in mano per firmare la nuova legge. Tocca al Congresso farla. E il Congresso ha detto no. Anche l’ultima formulazione, più vaga nei termini ma sostanzialmente identica a quella rinviata già dalle Camere. È fallito il tentativo di compromesso. Da ieri il sistema obamiano rimane globalmente valido. Il dibattito al Senato è durato quasi tutta la notte e il no è venuto con il margine minimo: 49 sì, 51 no. Nella Camera Alta i repubblicani dispongono di 52 seggi su cento, i democratici su 46, con due indipendenti alleati in genere dei democratici. I repubblicani avrebbero potuto vincere se i loro dissidenti non fossero stati più di due, perché in caso di parità decide il vicepresidente, che è repubblicano. Invece i dissidenti sono stati tre, l’ultimo dei quali non solo decisivo nel voto, ma esplicito nella motivazione e reso ancora più significativo dalle sue vicende personali recentissime. Il senatore McCain aveva presentato emendamenti alla nuova legge sanitaria e pochi giorni fa avevano scoperto che ha una grave forma di cancro al cervello. Invece l’hanno operato, è andata bene, è tornato a casa, è venuto in Senato ove ha deposto il voto decisivo. E così la riforma obamiana, tante volte data per morta, ha compiuto sette anni.
Adesso rimane aperta, almeno in teoria, la strada di apportare emendamenti e miglioramenti ma rimanendo fedeli al concetto base. Ci vorrà comunque parecchio tempo prima che la stilografica di Donald Trump sia chiamata ad apporre quella firma a un documento che può avere successo ormai solo se frutto di un compromesso fra i due partiti e le versioni, che sono più di due. A rendere più difficile un accordo ci sono naturalmente i rapporti complessivi fra il Congresso e la Casa Bianca, inaspriti quasi ogni giorno da ulteriori scontri su altri temi. L’ultimo è un sì quasi plebiscitario a nuove sanzioni contro la Russia, che Trump vorrebbe evitare ma rischia di non averne i mezzi costituzionali. Il tutto a causa dell’indagine in corso sui sospettati accordi fra Trump e Putin, su cui l’opposizione (che in questo caso comprende anche dei repubblicani) gioca quasi tutte le sue carte ma cerca anche di aprire altri fronti. Uno dei più recenti riguarda le forze armate ma più precisamente i militari che appartengono alla sottospecie sessuale dei transgender. Trump ha annunciato di volerli proibire e quindi licenziare tutti, con la motivazione ufficiale che gli interventi chirurgici possono avere indebolito il loro organismo, richiedere altri interventi molto costosi che aumenterebbero il deficit nazionale. L’opposizione indignata sostiene che il provvedimento riguarderebbe 150mila fra soldati, marinai e aviatori e quindi indebolirebbe la sicurezza militare degli Stati Uniti. Dimensioni che, se esatte, trasportano su un terreno bellico o quasi un problema originariamente piuttosto intimo, o almeno così appariva quando Obama approvò una legge che apriva ai “trans” le porte del Pentagono. I cui dirigenti si sono espressi in maniera del tutto negativa sulla controriforma di Trump.
Ma non è il solo argomento di discordia. Sempre a causa dell’inchiesta sui rapporti con la Russia (che coinvolgono ormai l’intera famiglia Trump e personaggi dei concorsi di bellezza) si allargano le ostilità al progetto di far deporre nell’inchiesta invocata molti esponenti dello Stato e del governo, che sono comprensibilmente ostili a questo allargamento e di conseguenza si combattono, a cominciare dal presidente. Si calcola che fra i suoi più diretti collaboratori, almeno una mezza dozzina siano stati da lui nominati e poi “scaricati”. Quelli più in pericolo oggi sono Primus e Sessions, che sono stati invitati a dimettersi da Trump in persona, che continua a cambiare il suo team. L’ultima novità è Anthony Scaramucci, il cui stile polemico fa sollevare molte sopracciglia. Il suo ultimo intervento pubblico comprende espressioni che è consigliabile non tradurre perché sono di estrema, impensabile volgarità. L’epiteto più presentabile è “fottuto”. A parte la formula di una “dichiarazione di guerra” in cui Scaramucci paragona la propria rivalità ai rapporti fra Caino e Abele.