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Un errore di stampa può azzoppare o distorcere un articolo



Alberto Pasolini Zanelli
Un errore di stampa può azzoppare o distorcere un articolo, un racconto, un libro di storia. Capita di rado, ma ancora di rado il contrario: che cioè l’errore riassuma l’intero scritto e che le parole stampate giuste siano quelle sbagliate e viceversa. È capitato poche ore fa a uno dei più rispettati e imitati quotidiani americani: la Washington Post. Non è proprio un errore di stampa di quelli che cambiano o scambiano una parola. Questo scambia una fotografia di un personaggio che dovrebbe essere noto: un cancelliere tedesco. L’immagine raggruppa tre statisti, autori o beneficiari di un grande evento storico: la caduta del Muro di Berlino, la riunificazione della Germania, la fine della Guerra Fredda. Solo che uno dei tre non è lui. Non è Helmut Kohl, il beneficiario: è Helmut Schmidt, che a quei tempi era già fuori dai vertici della politica. Lui e Kohl avevano alcune cose in comune: erano tedeschi, sono stati cancellieri, sono morti entrambi e si chiamavano entrambi Helmut. Hanno entrambi lasciato un buco nella storia, ma in date e in situazioni diverse: Kohl ha vissuto la gloria e i frutti di un evento storico creato dagli altri due, Mikhail Gorbaciov e Ronald Reagan. Solo il russo è ancora vivo, anche da tempo in pensione. Reagan è morto e anche Kohl e Schmidt, ma questi due non si assomigliavano neanche un poco: uno molto alto, corpulento e fortunato, l’altro piccoletto, tenace e non abbastanza premiato dagli eventi. Se c’è un errore di stampa in un commento politico ecco il record in materia.
Soprattutto perché Schmidt, al posto di Kohl, è proprio accanto a Reagan in un momento in cui il primo è quasi dimenticato mentre il secondo, diversi anni dopo, è ritornato di moda, è “rinato” come esempio. In due modi, con giustificatissimi riconoscimenti mondiali e soprattutto americani e come alibi e modello di chi di un alibi avrebbe bisogno. Si tratta del suo attuale successore come presidente degli Stati Uniti e come leader del Partito repubblicano Usa. Donald Trump, evidentemente, presente ogni giorno con la parola e le immagini. Un errore di stampa su di lui è impensabile.
Ma sarebbe stato impensabile fino a poche settimane fa come continuazione o resurrezione di Reagan e del “reaganismo”. Non se ne era parlato molto, dopo l’ingresso alla Casa Bianca dell’altro. Sono passati trentasette anni dalla sua prima elezione e ventinove dalla scadenza del suo mandato. Il mondo è cambiato, in misura diversa nei tre leader dell’errore di stampa. La Germania riunificata, l’America più potente ma più incerta che mai, l’Unione Sovietica scomparsa nella nomenklatura e profondamente cambiata, a cominciare dalla morte del comunismo. La Guerra Fredda non è risorta, la tensione sta risorgendo fra le due Superpotenze e quindi in tutto il mondo, tranne forse la Germania, erede di Helmut Kohl e così diversa da Helmut Schmidt.
L’America aveva dimenticato Reagan con anticipo sul suo ruolo storico. Se risorge adesso è come memoria, compianto e alibi. Lo rimpiangono quasi tutti, soprattutto l’americano medio con riconoscenza, i politici del partito concorrente con simpatia, il suo erede attuale con rimpianto e astuzia. Donald Trump parla molto, soprattutto adesso, di Ronald Reagan e cerca di identificarsi con lui, soprattutto a mano a mano che il primo anno del suo potere ha segnato una diminuzione rapida e tenace della sua popolarità, qualcosa come una decina di milioni di elettori che rimpiangono di aver votato per lui. Trump sarebbe stato molto più contento se lo scambio di immagini fosse avvenuto fra due politici tedeschi e non americani.
In particolare l’attuale inquilino della Casa Bianca cerca di indossare il mantello di Reagan, soprattutto nella politica estera e di ottenere così una estensione del suo legato. Riesce a convincere qualcuno, ma sempre meno mentre si sta diffondendo invece l’immagine di qualcuno che ha capovolto il ritratto invocato. La versione ufficiale, portata avanti da diplomatici, legislatori, militari e ideologi dell’odierno Partito repubblicano è quella di un “Reagan moderno”, autore di un rinascimento dell’immagine americana nel mondo, soprattutto nella politica estera, dopo decenni e basata sulla formula di un “realismo basato sui principii”. In realtà questa struttura è incrinata, non soltanto dall’azione di Trump, ma in modo più evidente e dunque con maggiori pericoli. Lo ammette lo stesso presidente, che denuncia il “revisionismo” russo e cinese come minaccia di sovversione dell’ordine politico e strategico sorto dopo la Seconda guerra mondiale. Una situazione agevole da descrivere con un vocabolario e dei toni reaganiani: “Prosperità e protezione, pace basata sulla forza”.
Fin qui si può tentare l’accostamento, a rischio di moltiplicare gli errori di stampa, ma in realtà emergono sempre di più le differenze fondamentali tra i due presidenti. Reagan aveva lanciato la descrizione biblica dell’America come “città splendente sulla collina”, Trump non la riconosce più così e cerca di “recuperare la fiducia nei valori dell’America”. Invece moltiplica, a ragione o a torto, l’allarme per le minacce che vengono un po’ da tutte le direzioni, dall’estremismo islamico, all’espansione cinese, alla pigrizia e avarizia degli alleati europei e ultimamente anche al revanscismo a Mosca. Quasi un capovolgimento dell’impressione che Trump nutriva e distribuiva durante la campagna elettorale, appena un anno fa, al punto da rendere credibile il sospetto, distribuito a piene mani dalla posizione democratica (a cominciare dalla grande stampa) di una sua amicizia personale con Vladimir Putin, revisionista in capo, sospettata da sempre più politici e portavoce di connessioni nei confronti anche personali e finanziari di famiglia. Non senza successi, dal momento che è in già in corso un’inchiesta della Cia che riguarda i principali collaboratori di Trump e quindi indirettamente lui. Che reagisce in due modi: con la veemenza verbale e l’istigazione di risentimenti xenofobi e razzisti, condivisi durante la campagna elettorale dai ceti meno colti e meno abbienti, che non sono mai stati il fulcro dell’elettorato e dell’establishment repubblicano, che Reagan aveva saputo conquistare e al tempo stesso dirigere e dominare.
Trump ha tentato ma non ci è riuscito finora. E allora per salvarsi sta facendo marcia indietro e cercando di presentarsi come un repubblicano “classico”, soprattutto sul piano economico, dove si è in pratica “arreso” a una riforma fiscale voluta dall’establishment e che serve soprattutto ad “arricchire i ricchi e a sacrificare i poveri”. Ciò gli consente di riprendere il controllo del Congresso e del partito in vista della per ora lontana prospettiva di elezioni per il prossimo quadriennio. C’è chi lo segue, sensibile al fattore economico e c’è chi rimane, alla base scettico o dubitoso. Succedeva anche con Reagan ma molto meno. E, nella leggenda,è diventato impensabile. È così che nascono gli errori di stampa, quelli storici.